Airbnb contro la cedolare secca

Airbnb contro la cedolare secca

La manovrina fiscale del Governo vuole imporre una tassazione al 21 per cento nei confronti delle piattaforme online della sharing economy. Per Airbnb una tassa di soggiorno sarebbe l'ideale
La manovrina fiscale del Governo vuole imporre una tassazione al 21 per cento nei confronti delle piattaforme online della sharing economy. Per Airbnb una tassa di soggiorno sarebbe l'ideale

Airbnb è pronta a ricorrere contro la normativa con cui l’Italia vorrebbe imporre la cedolare secca nei confronti delle transazioni effettuate attraverso la propria piattaforma .

Secondo la cosiddetta “manovrina” fiscale, infatti, dovrà essere pagata una tassa corrispondente al 21 per cento per tutti gli affitti inferiori ai 30 giorni stipulati da persone fisiche direttamente o tramite soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare , come appunto le piattaforme online della sharing economy tra cui figurano ad esempio Airbnb e Booking.

L’Agenzia delle Entrate ha sottolineato , inoltre, che i locatori che non si adegueranno alla tassa rischieranno una sanzione di oltre 2.000 euro, mentre per gli intermediari ci sarà una multa pari al 20 per cento dell’ammontare non trattenuto a titolo di ritenuta operando come sostituto d’imposta.

L’orizzonte che si apre davanti al servizio online che mette in contatto locatori privati con stanze o intere case e appartamenti libere e viaggiatori non è dunque dei più rosei, e dopo Uber , dunque, anche l’offerta di soluzioni generate dalla cosiddetta sharing economy di Airbnb rischia di essere fermata.

L’Italia, d’altra parte, sembra seguire le linee guida rilasciate dalla Commissione Europea in materia di regolamentazione dei servizi di economia partecipativa nei singoli Stati con un accento particolare rispetto alla tassazione: è vero che nei criteri ivi suggeriti, e dunque comunque non vincolanti, l’istituzione europea parla di tassazione di tutte tali attività, ma parla altresì di distinzione tra utenti che impiegano la piattaforma di sharing economy sporadicamente per arrotondare e coloro che esercitano un’attività professionale vera e propria nel settore. Un modo, insomma, per dire che tali servizi non devono essere equiparati a quelli professionali, dal momento che vengono svolti da privati senza continuità o comunque senza diventare reddito primario.

Se è vero che la sharing economy solo nel 2015 ha rappresentato per l’Europea un giro d’affari di oltre 28 miliardi di euro (secondo i dati solo in Italia avrebbe un fatturato di oltre 4 miliardi), con ricavi per le piattaforme di gestione dei servizi stimati in 3,6 miliardi di euro (si parla – solo per l’Italia – di 621 milioni di euro di guadagni degli host) e stime in crescita, è anche vero che rappresenta una nuova forma di servizio e che una tassazione e burocratizzazione eccessiva rischia di affossarla al pari di veri e propri divieti che, in quanto tali, sono osteggiati dalla Commissione.

Anche per questo, Airbnb non si è messa del tutto di traverso, ma ha sostenuto che se una tassazione è dovuta, non è questo il modo: per il servizio l’ideale sarebbe invece il modello già adottato da oltre 250 giurisdizioni nel mondo della “tassa di soggiorno”, modalità per la quale Airbnb ha già predisposto raccolta e versamento automatico per conto dei suoi ospiti.

“Vogliamo pagare le tasse e semplificare le operazioni al Fisco, ma non possiamo operare come sostituti d’imposta – dice Matteo Stifanelli, Country manager di Airbnb Italia – Se la legge rimane questa siamo pronti a fare ricorso”. Anche perché, ci tiene a sottolineare , che quella generata dalla sharing economy è una risorsa per l’intera nazione e non va quindi vista come un nemico da sconfiggere.

Claudio Tamburrino

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Pubblicato il
29 mag 2017
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