Autodisciplina, con sensibilità

Autodisciplina, con sensibilità

di G. Scorza - Intessere il codice di autoregolamentazione per fronteggiare l'incitazione alla violenza mediata dalla rete richiede attenzione. Qualche riflessione in attesa della negoziazione
di G. Scorza - Intessere il codice di autoregolamentazione per fronteggiare l'incitazione alla violenza mediata dalla rete richiede attenzione. Qualche riflessione in attesa della negoziazione

Nelle ultime settimane, dopo l’incontro del 22 dicembre scorso presso il Ministero dell’Interno tra il Ministro ed i rappresentanti dei principali operatori dell’Internet italiana e delle relative associazioni di categorie si è tornato a parlare, con insistenza, del varo di un Codice di autoregolamentazione della Rete, quale alternativa ai paventati interventi legislativi straordinari ed urgenti che il Governo aveva manifestato l’intenzione di varare a seguito degli ormai noti episodi di istigazione alla violenza online che avevano seguito l’aggressione del Premier a Milano.

Non è la prima volta che in Italia si parla di un Codice di Autoregolamentazione della Rete e, probabilmente, non sarà l’ultima. Oltre 10 anni fa, infatti, l’Associazione Italiana Internet Provider, l’Associazione Nazionale Editoria Elettronica, Telecom Italia e Olivetti avevano già lanciato l’idea di un codice di autoregolamentazione per i servizi Internet e presentato una bozza articolata e ben strutturata.
Il progetto è poi, tuttavia, naufragato o, più semplicemente, rimasto risucchiato dalla vertiginosa esplosione del fenomeno Internet e dal rapido mutamento dei protagonisti della Rete.

Oggi, in un contesto telematico sensibilmente diverso da quello di ieri, sia in termini qualitativi che quantitativi, l’idea viene riproposta e persino “sponsorizzata” dal Ministro dell’Interno, e soprattutto il varo di un Codice di autoregolamentazione viene richiesto come “urgente” e come alternativa ad una “legge speciale” sulla circolazione e diffusione di contenuti illeciti online. La fretta, è noto, è cattiva consigliera, a prescindere dalle buone o meno buone intenzioni dei protagonisti di ogni scelta e la materia di cui si parla è straordinariamente delicata e complessa. Prima che sia troppo tardi è, quindi, opportuno fermarsi un istante a riflettere sulla funzione e sul contenuto dell’emanando codice di autoregolamentazione che non può e non deve essere scritto sull’onda dell’emotività o, piuttosto, per porsi al riparo da eventuali leggi anti-Internet.

In tale prospettiva sembra, innanzitutto, utile ricordare che un Codice di autoregolamentazione o piuttosto di autodisciplina è uno strumento di carattere negoziale, suscettibile di spiegare efficacia tra i soli soggetti privati che vi aderiscono con l’intento di uniformare i propri comportamenti alle regole contenute nel Codice e, generalmente, di accettare le decisioni assunte, sulla base di dette regole, da parte di un organo istituito con il medesimo codice e che, in assenza di esso, sarebbe privo di qualsivoglia autorità.

Il codice di autodisciplina, pertanto, può certamente integrare le regole di diritto vigenti e, eventualmente, anche recepirle, facendole proprie, ma non può, in nessun caso, derogare ad esse né modificarle. In ogni caso poi il Codice si pone su un piano concorrente rispetto alle leggi ed all’azione delle Autorità – giudiziarie ed amministrative – che tali leggi sono chiamate ad applicare.
Muovendo da tali considerazioni di carattere generale si possono trarre alcune prime indicazioni circa le finalità che il Codice di autoregolamentazione di Internet di cui tanto si parla in questi giorni dovrebbe avere nonché in relazione al suo contenuto.

Quanto alle finalità, il Codice dovrebbe servire a stabilire taluni modelli uniformi di comportamento ai quali, i “Soggetti di Internet” – che già nello schema del Codice del 1998 venivano semplicemente definiti come “tutti i soggetti (persone fisiche o giuridiche) che utilizzano Internet” – si impegnino ad ispirare le proprie condotte online con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla pubblicazione e gestione dei contenuti e delle informazioni. Lo stesso Codice dovrebbe poi preoccuparsi di individuare strumenti e processi – rapidi ed efficaci – attraverso i quali chiunque possa segnalare eventuali violazioni rispetto ai modelli di comportamento elaborati ed ottenere la cessazione di eventuali condotte lesive dei propri diritti ed interessi.

Si tratta, a ben vedere, delle medesime finalità già elaborate nell’ambito dei lavori preparatori del precedente Codice di Autoregolamentazione cui, forse, in questa occasione – sulla base dell’esperienza sin qui maturata – potrebbe aggiungersi quella di individuare nuovi e più incisivi sistemi di collaborazione tra taluni soggetti di Internet e le forze di polizia, ciò, peraltro, limitandosi a recepire prassi già in uso e piuttosto diffuse che hanno, negli ultimi anni, consentito di conseguire buoni risultati.

Quanto ai contenuti, il Codice dovrebbe innanzitutto contribuire a far ordine in relazione alla questione – mai apparsa tanto complessa e preoccupante quanto negli ultimi mesi – del ruolo e delle responsabilità degli intermediari della comunicazione con riferimento ai contenuti creati e pubblicati dai propri utenti. Al riguardo occorrerebbe semplicemente recuperare dalla soffitta nella quale la giurisprudenza sembra averli relegati i principi di non responsabilità degli intermediari della comunicazione e di assenza di un obbligo generale di sorveglianza, da parte di questi ultimi, sui contenuti immessi in Rete dagli utenti. Occorre altresì non dimenticare che la ratio di tali previsioni che era e resta – come ricordato di recente dall’Avvocato Generale della Corte di Giustizia UE, nelle conclusioni, di recente, formulate nella Causa C236/08 – quello di “di creare uno spazio libero, pubblico e aperto su Internet, cosa che (n.d.r. la direttiva 31/2000 ) cerca di fare limitando la responsabilità di coloro che trasmettono o ospitano le informazioni ai soli casi nei quali, questi ultimi, sono coscienti dell’esistenza di una illegalità”.

Nel perseguire tale intento, il Codice dovrebbe prevedere l’obbligo per tutti i soggetti di Internet di non pubblicazione o rimozione – in ragione del ruolo di ciascuno – di dati e/o informazioni palesemente illeciti, ma, dovrebbe, ad un tempo, stabilire – a garanzia della libertà di manifestazione del pensiero degli utenti finali – un divieto di rimozione, in assenza di preventivo provvedimento dell’Autorità giudiziaria, di ogni contenuto la cui illiceità, sebbene denunziata da terzi, non risulti di immediato accertamento o percezione.

Il Codice dovrebbe, inoltre, imporre a tutti i Soggetti di Internet di trattare i dati personali degli utenti ispirandosi al principio di massima trasparenza mentre sarebbe un errore se estendesse a tutti, per via convenzionale, l’applicazione della disciplina italiana sulla privacy che contiene speciali disposizioni in ordine al proprio ambito di applicabilità che non possono, evidentemente, essere modificate dal varo del Codice.

Gli aderenti al Codice – se fornitori di servizi della società dell’informazione – dovrebbero, inoltre, impegnarsi – e ciò rappresenterebbe un aspetto importante – a fornire agli utenti finali una rappresentazione puntuale e trasparente delle caratteristiche dei servizi forniti.

Il compito di garantire il rispetto delle disposizioni del Codice, andrà, poi, affidato ad un Giurì, all’uopo istituito, e che dovrebbe essere formato da rappresentanti di tutti i soggetti di Internet e da esperti del settore.

Tale approccio potrebbe produrre numerosi effetti positivi: (a) educare gli utenti della Rete ad un uso più conforme alle regole della civile convivenza della Rete stessa, (b) uniformare il livello di “sensibilità” degli operatori rispetto a talune tipologie di contenuti ed al loro trattamento e, da ultimo ma non per ultimo, (c) deflagrare il carico di lavoro dell’Autorità giudiziaria e consentirle decisioni più celeri e, possibilmente, puntuali – magari adottate da Sezioni specializzate – in relazione a quelle vicende che non sia risultato possibile risolvere nel contesto autodisciplinare.

Quanto agli aspetti operativi, infine, il Codice potrà prevedere l’individuazione, da parte di tutti gli operatori della comunicazione telematica – italiani e stranieri purché, naturalmente, aderenti al Codice – di “punti di contatto” ai quali, nell’ambito delle indagini, le Autorità di polizia possano rivolgersi per acquisire più celermente notizie ed informazioni, eventualmente anche per via telematica ed in lingua italiana.
Non appare, invece, opportuno che la natura di tali “punti di contatto” sia elevata sino a farne dei luoghi e dei soggetti abilitati a ricevere, formalmente, notifiche di atti di procedimenti civili o penali o, piuttosto, ordini di inibitoria e sequestro. Per questa via, infatti, attraverso il Codice si finirebbe, nella sostanza, per modificare la disciplina vigente, dando peraltro vita ad una legge speciale per la Rete.

Egualmente e per le stesse ragioni in sede di varo del Codice, nonostante la tentazione di molti, in queste ore – tentazione alimentata dall’ansia di sottrarsi a non controllabili iniziative legislative – occorrerà evitare di intervenire, attraverso la regolamentazione pattizia, sulla disciplina in tema di giurisdizione ed esecuzione di provvedimenti di autorità giudiziarie straniere all’estero.

Non è opportuno, derogare, per la Rete, a regole valide per ogni altra fattispecie di illecito o reato e, soprattutto, non è opportuno – oltre che di dubbia sostenibilità giuridica – farlo attraverso uno strumento negoziale che, evidentemente, produrrebbe effetti solo per taluni soggetti della Rete.

Se, come è facilmente comprensibile, in relazione all’esecuzione di alcuni provvedimenti relativi a condotte telematiche, gli attuali strumenti del processo civile e penale non appaiono idonei ed efficaci, occorrerà agire a livello internazionale e farsi promotori, ad esempio in sede di Consiglio d’Europa, di una proposta di protocollo integrativo alla Convenzione di Budapest sulla Cybercriminalità che ne ampli l’ambito di applicabilità e che consenta di utilizzare, in un più ampio novero di casi, i nuovi strumenti istituti investigativi e le nuove forme di esecuzione di provvedimenti stranieri elaborati proprio per combattere il cybercrime.

Confondere pubblico e privato, esportare nelle dinamiche del processo accordi di natura negoziale e derogare per la Rete a principi generali del diritto, oltre a costituire un’operazione di ingegneria giuridica di incerto risultato non appare né utile né auspicabile.
Il Codice deve dar vita ad un ecosistema autonomo nell’ambito del quale la più parte dei fenomeni di abuso degli strumenti telematici che oggi si registrano ed impegnano forze dell’ordine ed Autorità Giudiziarie dando vita, talvolta, a derive ed esagerazioni “autoritarie” possano essere risolte dai soggetti della Rete. Ove ciò non sia possibile, in uno Stato di diritto, interviene il potere giudiziario, l’unico in grado di offrire la garanzia del bilanciamento dei contrapposti diritti ed interessi.

Ovvio, peraltro, che, in tale seconda ipotesi, gli altri Poteri dello Stato sono chiamati a fare un passo indietro e non possono e non devono – come troppo spesso accaduto negli ultimi mesi – brandire o minacciare reazioni extra-giudiziarie attraverso provvedimenti straordinari ed urgenti il cui solo annuncio è, talvolta, in grado di indurre gli operatori privati a “scendere a patti”, immolando così diritti ed interessi dei consumatori sull’altare del “quieto vivere” con le Istituzioni.
Sono queste le condizioni alle quali, a mio avviso, il Codice di autoregolamentazione della Rete può rappresentare un’opportunità per abbassare i toni di un confronto/scontro tra il Palazzo e i soggetti della Rete che, negli ultimi mesi, ha, spesso, rischiato di divenire insostenibile.

Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it

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Pubblicato il 11 gen 2010
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