Google risponde ad Oracle

Google risponde ad Oracle

Le accuse di violazione di diritto d'autore sarebbero imprecise, i brevetti in parte invalidi, oppure persino non violati. In ogni caso Oracle starebbe rivoltando la frittata: Java è open oppure no?
Le accuse di violazione di diritto d'autore sarebbero imprecise, i brevetti in parte invalidi, oppure persino non violati. In ogni caso Oracle starebbe rivoltando la frittata: Java è open oppure no?

Ad agosto Oracle aveva presentato al giudice una denuncia nei confronti di Google per violazione nel SO Android dei brevetti e del diritto d’autore relativo, quasi a chiarire le sue intenzioni rispetto alla proprietà intellettuale appena acquistata con Sun MicroSystem. Da Mountain View è arrivata ora la risposta ufficiale alle accuse di violazione di proprietà intellettuale relative a Java. Tutte da respingere per Google.

Per quanto riguarda la violazione di diritto d’autore, secondo BigG “l’accusa non identifica chiaramente nessuna opera che sarebbe stata copiata da Google”, non incontrando così gli standard minimi di accuratezza di una denuncia per violazione di diritto d’autore . La precisione di Oracle sarebbe stata dovuta (e possibile) in quanto gli 11 milioni di linee di codice di Android sono liberamente accessibili.

Chiara anche la posizione sui brevetti chiamati in causa da Oracle: invalidi o non violati . Per l’invalidità, addirittura, Mountain View chiama in causa la dottrina dell’abuso del diritto , fattispecie che si presenta, per esempio, quando il proprietario di un titolo di privativa non immette sul mercato il relativo prodotto.

Google, poi, ne fa una questione di principio : “È una gran delusione che dopo anni di supporto all’open source Oracle abbia fatto un ribaltone tale che le permette di attaccare non solo Android, ma l’intera comunità open source di Java, oltretutto con accuse così poco consistenti”. Quando la piattaforma apparteneva a Sun e questa aveva rilasciato parte del codice, sottolinea BigG, la stessa Oracle si era lamentata della suo non totale apertura.

Accanto alla richiesta di licenza avanzata nei confronti di Google, per la verità, Oracle accusa il motore di ricerca di aver intaccato la versatilità dell’impianto di Java utilizzato nei suoi dispositivi (tramite la virtual machine Dalvik) compromettendo alla base il principio “scritto una volta, compatibile ovunque”, minacciando tutti i consumatori, sviluppatori e produttori che lavorano con il linguaggio. Questo resta il punto cruciale del contendere. Tanto che sarebbe stata la stessa Sun a dare il via alla causa , il cui inizio è coinciso però con il passaggio di consegne della nuova proprietà.

Google, peraltro, sottolinea come sia stata la stessa Sun a non rilasciare, a differenza del resto della struttura Java, alla comunità open source il test compatibility kit (TCK) nella speranza di garantirsi un flusso di royalty. E proprio per questo avrebbe indipendentemente lavorato a Dalvik. Poco conta, se non per influenzare l’immagine dell’azienda, che in passato Oracle stessa spingesse per una apertura completa .

La questione, insomma, resta su quanto e come Dalvik sia stata sviluppata solo con materiale open source e se comprometta o meno l’utilizzo universale di Java. In sua difesa Googe afferma di essersi basata sullo strumento di Apache Foundation “Harmany Java implementation”: fatto che, non avendo quest’ultimo ottenuto tutte le approvazioni necessarie da Sun (che cercava di imporre il suo TCK), non metterebbe però Mountain View al sicuro da tutte le accuse.

Il SO mobile di Google, diventato secondo l’ ultima statistica Nielsen il più popolare negli Stati Uniti, è attaccato a destra e manca al grido di “libero non significa gratuito” e a colpi di denunce di proprietà intellettuale. Da ultimo è stata Microsoft ad avviare una causa che ha come bersaglio indiretto il concorrente del suo Windows Phone 7 di prossima uscita.

Intanto, continua il perturbante silenzio di Oracle sul destino di Java, così come sulla possibilità di un nuovo Java Community process ( JPC ) per le imprese che se ne occupano, ma soprattutto sulla volontà o meno di rinnovare l’impegno open source.

Claudio Tamburrino

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Pubblicato il
6 ott 2010
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