La grande X

La grande X

di Paolo De Andreis. Il mostro di Frankenstein è salito sulle Caravelle e sta attraversando l'Atlantico, pronto a far polpette di chi incontrerà sul lido d'America. Tanto a lui non bada nessuno
di Paolo De Andreis. Il mostro di Frankenstein è salito sulle Caravelle e sta attraversando l'Atlantico, pronto a far polpette di chi incontrerà sul lido d'America. Tanto a lui non bada nessuno

Roma – Ci hanno lavorato sopra per molti mesi e chi osasse ora andare in giro a dire che l’accordo sulla privacy USA-UE è una mezzatruffa perché inganna i cittadini delle due U rischierebbe di essere preso a pedate. O, più probabilmente, di essere ignorato.

Sì, perché per far partire Safe Harbor , un’intesa tra le due sponde dell’Atlantico sul trattamento dei dati personali con un diretto riferimento alle attività Internet, i rappresentanti americani e quelli dell’Europa continentale hanno sofferto non poco, come ben sanno i lettori di Punto Informatico. E quello che ne è venuto fuori è un accordo Frankenstein che piace poco all’industria, fa sghignazzare la Commissione europea, bacchetta gli americani e inganna i cittadini del Vecchio Continente.

Tutto deriva dalle origini del “mostro di Frankenstein”. Nel laboratorio di un castello in cima ad una collina, infatti, i rappresentanti USA e UE hanno messo sul tavolo i loro pezzi. I primi l’autoregolamentazione industriale sul trattamento dei dati personali degli utenti e i secondi la severa direttiva UE e la regolamentazione dall’alto delle tematiche legate alla privacy, con tanto di autorità dedicate.

L’incompatibilità tra i due approcci era evidente fin dall’inizio, dunque. Negli USA, infatti, l’industria non ha potuto che guardare con raccapriccio la regola UE che impone, per esempio, che ai cittadini sia chiesto il consenso per l’uso dei loro dati personali. E con ancora maggiore sgomento gli americani hanno visto approvata la direttiva UE che impedisce alle aziende europee di “commerciare dati” con aziende di paesi nei quali la privacy non sia protetta quanto in Europa, USA compresi…

La segreta alchimia baronesca, però, ha fatto sì che pezzi apparentemente così incompatibili trovassero comunque delle solide suture di contatto, fino a formare un corpaccione un po ‘ scomposto ma con un volto decente, capace dunque di ingannare almeno per qualche tempo il pubblico che, distratto, lo vede camminare da lontano. Sulla sua fronte è stata incisa, come su un improbabile Golem, la parola Safe Harbor .

Il termine indica un accordo secondo cui potranno “commerciare dati” con le aziende europee le imprese americane che si faranno certificare per il Safe Harbor. La certificazione consiste, in buona sostanza, nella promessa che i dati che arrivano alle ditte statunitensi dalle negoziazioni con le controparti europee, dati di europei dunque, siano trattati “con il dovuto rispetto”. In cambio di questa promessa, i rapporti in essere tra le due sponde dell’Atlantico, almeno per chi ci starà, non dovranno cessare a causa della direttiva europea.

Ma il “mostro” di Frankenstein, si sa, ha un cervello malato, e gli insani principi con cui è stato concepito e costruito influiscono inevitabilmente sui suoi processi.

Accade così che i cittadini europei che hanno dato il loro consenso per il trattamento dei dati personali da parte di un’impresa, poniamo, del proprio paese rischiano di vederli passare al di là dell’Oceano senza saperlo. Non solo, una volta arrivati lì, quei dati potranno essere scambiati dalle imprese USA che aderiscono al Safe Harbor, sempre ché queste riescano a differenziare il trattamento dei dati degli europei da quelli degli americani e abbiano la coscienza di utilizzarli secondo quanto promesso.

Ma a parte la fregatura per gli europei, per i pochi americani che ancora si preoccupano della propria privacy, Safe Harbor è una mazzata. Nell’indifferenza generale, in tempi di Echelon e Carnivore, quei pochi hanno l’opportunità di capire che in Europa i dati personali vengono considerati in modo molto diverso. Alcuni di loro hanno provato a protestare, anche da tribune molto ascoltate come il New York Times, ma non sono riusciti nemmeno a scatenare un dibattito degno di questo nome. E sono ormai rimasti in quattro i gatti che s’indignano perché i dati personali appartengono ancora, negli USA, a chi li gestisce e non a chi quei dati “produce” respirando e soprattutto consumando giorno dopo giorno.

Ma il mostro del barone von Frankenstein, come noto, fa anche danni ed è quindi con sommo stupore che i funzionari nel primo giorno di apertura del Safe Harbor hanno visto una sola azienda chiedere la certificazione. Se il buon giorno si vede dal mattino non è detto che a fine giornata con il tramonto von Frankenstein ritorni nel suo laboratorio e dichiari la sconfitta. Rimane da vedere se, dopo averlo fatto, avrà il coraggio di andare, nella notte, a cercare il suo mostriciattolo preferito per accoltellarlo alle spalle o se preferirà lasciarlo vagare nella lande desolate a far fuori bambine.

Paolo De Andreis

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Pubblicato il 4 nov 2000
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