Lulzsec, giro di chiave contro l'hacktivista

Lulzsec, giro di chiave contro l'hacktivista

Jeremy Hammond è stato condannato a dieci anni di carcere per attività di hacking. Il massimo della pena. Ma l'hacktivista non ha rimpianti
Jeremy Hammond è stato condannato a dieci anni di carcere per attività di hacking. Il massimo della pena. Ma l'hacktivista non ha rimpianti

A Jeremy Hammond, membro degli hacktivisti di Lulzsec, è stata inflitta la pena massima possibile (10 anni, che si sommano ai 18 mesi già passati in galera) per l’ attacco informatico che ha portato al furto di milioni di email e migliaia di carte di credito, nonché alla distruzione di numerosi dati dell’azienda privata che collabora con l’intelligence statunitense Strategic Forecasting (Stratfor).

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A stabilirlo è stato il giudice della corte distrettuale di New York Loretta Presca, che ha ritenuto che non ci fosse né alcuna traccia di pentimento in Hammond, né alcuna assicurazione che non possa tornare a compiere tali atti illegali. D’altra parte, pur essendosi dichiarato colpevole, il ventottenne è recidivo in quanto già condannato a due anni per l’attacco ai danni del sito di Protest Warrior, un’organizzazione che – secondo Hammond – vendeva “magliette razziste e aizzava i gruppi pacifisti”.

Inoltre, la sua confessione sembra più un’accusa al sistema che una vera e propria ammissione di colpa: pur riconoscendo di essersi introdotto in dozzine di account di alti profili aziendali e istituzioni organizzative, Jeremy Hammond parla di “atti di disobbedienza civile” e spiega di sentirsi in obbligo “di usare le mie abilità per scoprire le ingiustizie e portare alla luce la verità”.

D’altra parte, è proprio tramite questi attacchi – racconta – che è venuto a conoscenza di atti illegali compiuti da aziende e governi. Capendo immediatamente che per questo sarebbe finito in prigione. Soprattutto perché, continua, “abbiamo a che fare con una struttura di potere che non ci rispetta e non rispetta il suo stesso sistema di pesi e contrappesi, né i diritti dei suoi cittadini o della comunità internazionale”. Per questo, spiega ancora, dopo l’aver tentato inutilmente di cambiare le cose con il voto, le petizioni e la protesta pacifica, l’accesso illegale ai sistemi informatici dei potenti si sarebbe reso necessario .

La storia di Hammond è, d’altra parte, la storia degli ultimi anni dei movimenti di protesta online e non : il suo coinvolgimento nasce con le mobilitazioni contro la guerra in Iraq ed Afganistan, successivamente si avvicina al gruppo Anonymous e poi a Lulzsec, hacktivisti ad esso legati. E qui viene incastrato : il vertice di LulzSec Hector Xavier “Sabu” Monsegur viene intercettato dall’FBI e da questi controllato per manipolare i membri del gruppo e raccogliere informazioni su di loro. Hammond, paradossalmente, dichiara che se non fosse stato per l’ azione e l’incitamento di Sabu (già sotto il controllo dell’agenzia federale), non avrebbe sferrato diversi degli attacchi che ha condotto.

Hammond racconta così di aver finito per passare informazioni sull’accesso a siti di Governi esteri e di cittadini innocenti – attraverso Sabu – proprio al suo nemico giurato, il Governo degli Stati Uniti .

L’hacker, inoltre, racconta di come sulla sua strada sia stato ispirato da Wikileaks e dall’ex tenente Chelsea Manning.

Insomma, Hammond – come da tradizione quando un hacktivista viene arrestato – non sembra reticente nel raccontare le sue azioni e le sue responsabilità, ma lo fa mantenendo il punto delle sue ragioni e non riconoscendo alcun errore : anzi, se ha un rimpianto è solo quello di “aver rilasciato i dati personali di persone innocenti che non avevano nulla a che fare con le operazioni delle istituzioni ho preso di mira.”

Hammond, insomma, sembra essere diventato una vittima esemplare per entrambe le parti e l’opinione pubblica si divide tra chi lo considera un criminale e chi un oppositore politico: le istituzioni hanno voluto usare la mano pesante nel giudicarlo, mentre gruppi di opposizione come Electronic Frontier Foundation ne hanno supportato la difesa e parlano ora di “punizione eccessiva”. Inoltre, non sono mancate le proteste contro il Computer Fraud and Abuse Act (la normativa sui reati informatici per cui è stato condannato) e contro l’FBI davanti al tribunale che processava l’hacker, nonché all’interno dell’aula: quando i giudice ha chiamato a testimoniare le vittime del reato un uomo si è presentato dichiarandosi “vittima dell’FBI”.

Claudio Tamburrino

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Pubblicato il
18 nov 2013
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