Vietnam, la stagione dei monsoni

Vietnam, la stagione dei monsoni

Per questa stagione, non solo piogge: all'orizzonte si profila una vero cataclisma liberticida per i due milioni di utenti Internet in Vietnam. Ecco tutte le simpatiche novità decise dal Governo
Per questa stagione, non solo piogge: all'orizzonte si profila una vero cataclisma liberticida per i due milioni di utenti Internet in Vietnam. Ecco tutte le simpatiche novità decise dal Governo


Roma – Il governo di Ha Noi vara un nuovo piano per estendere un controllo sistematico della Rete. La libertà d’espressione continua ad affievolirsi drammaticamente per i due milioni di utenti vietnamiti. Le Dung, Ministro degli Esteri, annuncia che il Vietnam vuole “proibire l’uso di Internet a chiunque possa avvalersene per disseminare segreti di stato, mettendo a repentaglio la sicurezza e l’ordine sociale”. Nel frattempo, la gravità del nuovo provvedimento rischia di passare in sordina grazie alla concomitante inaugurazione della più grande biblioteca informatica vietnamita .

Le nuove disposizioni ricalcano la linea adottata dalla Cina : archiviazione totale delle abitudini on-line individuali, “lista nera” di contenuti proibiti e monopolio statale sull’attività dei fornitori d’accesso pubblici. Una morsa del silenzio che stritola i numerosi Internet-cafè, unica realtà telecomunicativa abbastanza diffusa sul territorio. I dati parlano di oltre 5000 cafè, frequentati solitamente da giovani tra i 14 ed i 24 anni.

Collegarsi ad Internet da questi luoghi pubblici, affacciandosi sul “pericoloso” mondo occidentalizzato, è un atto equivalente all’imbarco su un qualsiasi aereo di linea . Nguyen Minh Vinh, tra gli autori della svolta liberticida, dichiara che “proprio come in aeroporto, all’entrata in un Internet cafè è obbligatorio mostrare un documento identificativo oppure il passaporto”.

Le informazioni personali vengono così archiviate per trenta giorni e servono per costruire un resoconto dettagliato sull’attività telematica di ogni cittadino. Ma non finisce qui: tutti i provider sono obbligati ad utilizzare firewall che blocchino, sia in entrata che in uscita, la connessione verso una lunga lista di siti “banditi”.

Il prezzo da pagare per chi non si adegua è altissimo, considerato il reddito medio vietnamita (calcolato attorno ai 2000?): ben 3000? di multa. La stessa pena è prevista per chiunque pubblichi materiale “sovversivo”, laddove l’infrazione non si tramuti addirittura in una incarcerazione “preventiva”.

E’ tristemente noto il caso del giovane Nguyen Dan Que , colto nel sacco mentre spediva e-mail ad Amnesty International , o quello di Nguyen Vu Binh, giornalista finito in carcere per aver espresso opinioni fortemente critiche nei confronti dell’ordinamento socialista. Secondo il quotidiano An Ninh The Gioi , organo stampa del Ministero della Pubblica Sicurezza, nella Rete esistono ben 53000 siti stranieri altamente pericolosi per il Vietnam: nella lista si va da Human Rights Watch fino a tutti i maggiori quotidiani occidentali on-line.

Secondo le autorità, nel corso degli ultimi due anni Internet è quindi divenuto il medium preferito dai dissidenti e dai temutissimi “nemici dello stato”: nel mirino del regime sono soprattutto i siti che denunciano la traballante situazione sociale vietnamita. Le nuove norme concludono pertanto una lunga spirale discendente iniziata quattro anni fa , quando i primi segni di una timida informatizzazione di massa fecero tremare i vertici della Repubblica Socialista.


Il Vietnam non è l’unico paese orientale in cui l’utilizzazione di Internet è totalmente condizionata dai dettami del governo. Nel blocco continentale asiatico, influenzato pesantemente dalle decisioni della Cina comunista, molte nazioni hanno ormai adottato una rigida linea censoria e restrittiva verso le possibilità di comunicazione libera.

La prima decisione multilaterale verso la criminalizzazione della libera attività telematica risale al 4 settembre 1996, nel corso di un convegno della ASEAN (Associazione delle Nazioni Sud-Est Asiatiche).

Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam decisero congiuntamente di collaborare al raggiungimento, entro brevi termini, del controllo totale della Rete . Una mossa azzardata che non mancò di attirare l’attenzione delle maggiori organizzazioni per la tutela dei diritti umani.

Nell’accordo venne stabilito un quadro d’azione per i paesi membri, atto a limitare drasticamente l’accesso a siti “pericolosi”: linee guida che vennero poi interpretate autonomamente dagli stati dell’unione asiatica, secondo i retroscena valoriali e culturali delle singole nazioni.

Il 25 settembre dello stesso anno, ad una settimana di distanza dall’accordo internazionale, Sun Microsystems comunicò la richiesta da parte del governo di Ha Noi per la creazione di un sistema informatico di filtraggio e controllo delle reti telematiche .

Un progetto inizialmente lodevole, mirato al controllo della pornografia dilagante, con il nobile intento di fornire una Rete sicura per i giovanissimi. Ma quell’anno fu la morte della libertà d’espressione tout court per il Vietnam. La Cina implementò immediatamente un simile sistema di firewall governativi per tutelare “l’integrità morale e sociale” dei cittadini.

Per i regimi comunisti (ma anche per Singapore e Malesia), ingigantire la lista dei “contenuti moralmente inaccettabili” fu soltanto una questione burocratica. Iniziarono così le ritorsioni coercitive verso tutte le manifestazioni digitalizzate di reali problemi sociali ed economici. L’esigenza comunicativa dei privati cittadini venne pertanto attanagliata da un indiscriminato controllo statale, che si abbatte sia sui giovanissimi sia sugli intellettuali di rilievo.

Ogni critica rivolta alla situazione politica e sociale diventa “un pericolosissimo atto di dissidenza politica”, ogni contatto con il mondo occidentale risulta essere una rischiosa “fuga di informazioni segrete”.

Il Vietnam conta il numero maggiore di incarcerazioni legate a reati d’opinione e di pensiero. Nel periodo che va dal 2001 fino agli inizi del 2004, oltre 60 “cyberdissidenti” sono stati rinchiusi nelle patrie galere.
(Tommaso Lombardi)

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Pubblicato il 14 mag 2004
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