Little Italy, Wide World

Little Italy, Wide World

Saggio di Marco Farinelli, con introduzione di Massimo Mantellini, sulla necessità di restituire alla tecnologia e ad internet il senso di strumenti capaci di unire, di avvicinare e non discriminare. Un imperativo irrinunciabile
Saggio di Marco Farinelli, con introduzione di Massimo Mantellini, sulla necessità di restituire alla tecnologia e ad internet il senso di strumenti capaci di unire, di avvicinare e non discriminare. Un imperativo irrinunciabile


Introduzione di Massimo Mantellini

Quando qualche mese fa ho letto questo saggio che Marco Farinelli ha scritto e pubblicato nel 1996 su Computer-Mediated Communication (CMC) Magazine, una rivista storica del panorama digitale in rete statunitense, la prima impressione che ho avuto è stata che non mostrasse per nulla il segno degli anni e che molte delle considerazioni che vi sono esposte restassero oggi assolutamente attuali. Di più: dopo gli ultimi avvenimenti che hanno visto protagonista il nostro paese – alludo al G8 di Genova – e il mondo – penso agli attentati terroristici in USA e alle loro preoccupanti conseguenze – mi è parso ancora più importante riproporre sulle pagine di Stand By questo saggio, che ha come oggetto la comunicazione globale mediata dal computer vista e valutata nella sua accezione più vera: quella della possibilità di interscambio culturale e del confronto positivo delle varie identità locali, nell’attuale contesto della globalizzazione.

La strada di un uso della tecnologia, Internet prima di tutto, che unisca e non divida, che avvicini e non distingua è oggi un imperativo irrinunciabile. “L’appartenenza globale al mondo, oltre il retaggio di ogni singola barriera culturale” – per citare Farinelli – sembra, anche alla luce degli ultimi avvenimenti, davvero un percorso senza alternative. Quello che Marco scriveva nel 1996, periodo che potremmo considerare per l’Italia il medioevo della Internet attuale, sembra invece scritto e pensato per il mondo di oggi, quasi che gli anni passati, la grandissima diffusione della rete e lo sviluppo tecnologico in generale, nonostante tutto debbano ancora incamminarsi sulla strada della consapevolezza delle proprie intrinseche possibilità: ancora oggi come nel 1996.

“Little Italy, Wide World” – dal Provincialismo al Globalismo?

di Marco Farinelli

“Laureati del 1992: per favore alzatevi” fece eco una voce al megafono elettronico. Lunedì 18 Maggio, stando ritto, ascoltavo fiero l’Inno Nazionale Americano “The Star Spangled Banner” al Franklin Field del Campus della Università della Pennsylvania, a Filadelfia. Era il giorno della mia cerimonia di laurea. Mesi dopo, nell’Esercito Italiano, vivevo un’analoga dedizione prendendo parte all’alzabandiera sulle note di “Fratelli d’Italia”. Durante la mia vita accademica ho sempre cercato di pensare in maniera globale, e di nutrire questa prospettiva internazionale. Ciononostante, subito dopo la laurea, ho capito quanto fosse importante per me ritornare alle mie radici italiane. Oggigiorno, quando smisto la corrispondenza elettronica da un attico solitario qui a Roma, mi ritrovo a pensare in Inglese.

Alte muraglia culturali ostacolano lo sviluppo di un ambiente di comunicazione effettivamente su scala globale, e per culturale mi riferisco a ben più di barriere prettamente linguistiche: “La cultura consiste di tutte le caratteristiche e tratti distintivi, spirituali e materiali, intellettuali ed emozionali, che contraddistinguono una società o un gruppo sociale.” (UNESCO, 1982).

In un libro recente, Global Networks: Computers and International Communication , Jan Walls ed Hiroshi Ishii introducono la questione culturale nella globalizzazione delle reti di comunicazione. Ammessa per ipotesi la condivisione di un linguaggio di lavoro comune, Jan Walls definisce gli ostacoli culturali alla Comunicazione Mediata da Computer (CMC), da parte di individui facenti parte di distinti sistemi linguistici-culturali come, “(?) diverse vedute o aspettative su come gli elementi dovrebbero essere posti in relazione l’uno all’altro.” (Walls, 1993). Analogamente, Hiroshi Ishii dichiara che, “La maggior parte delle difficoltà di comunicazione interpersonale derivano da gap culturali tra le persone.” Sebbene la moderna tecnologia delle telecomunicazioni renda estremamente agevole lo scambio di messaggi digitali attraverso confini nazionali e culturali senza contatto fisico (comunicazione culturale trasversale, o trans-culturale ), la metodologia di elaborazione di un messaggio prodotto da una cultura in un’altra (comunicazione inter-culturale ) non è affatto facile (Ishii, 1993). Come disse la mia amica virtuale Karen-Carla: “Dannazione?questa comunicazione elettronica, transoceanica, multiculturale è complicata !” (Burgess Yakemovic, 1996). Citando la mia esperienza personale come esempio, ed attingendo alla letteratura disponibile, questo lavoro tenterà di illustrare l’interazione tra la comunicazione mediata da computer e le relazioni internazionali.


Barriere alla Globalizzazione della Comunicazione

Ho vissuto e studiato in America per circa cinque anni (1987-1992), alla Università della Pennsylvania, a Filadelfia. Non è un caso che, durante il mio soggiorno di studio, io abbia socializzato con un gruppo di studenti internazionali, piuttosto che con scolari Americani (seppur con eccezioni degne di nota). Ora, è ragionevole ipotizzare che l’effetto che le tradizioni storiche hanno sugli Eurasiatici sia un fattore che influenza il nostro modo di pensare, e di conseguenza, il nostro comportamento sociale (da notare che, nel nostro esempio, la “variabile della lingua inglese” può essere quasi totalmente esclusa). Nei miei viaggi nel ciberspazio, le relazioni internazionali sono stata la norma, e non l’eccezione. L’esperienza come unico italiano natio nella comunità virtuale della lista di discussione INFJ, mi ha fatto capire che, in realtà, sono stato capace di tessere relazioni con persone da tutte le parti del mondo, soprattutto Americani (essendo la maggioranza degli utenti), ad un profondo livello di comprensione e conoscenza reciproca-sin quando ho accettato di buon grado l’Inglese come linguaggio comune, e la cultura Americana come quella prevalente.

Si ipotizza dunque che la CMC possa promuovere una modalità innovativa della comunicazione internazionale, personale e collettiva, che non sarebbe possibile altrimenti. Se questo è il caso, allora la domanda è se ci troviamo di fronte ad una trasformazione sociologica positiva o negativa.

Continuando con la mia esperienza universitaria, ciò che forse è ancor più sorprendente è che non ho mai avuto una relazione intima con una donna Americana. Nel mio caso, non c’è stata semplicemente attrazione reciproca. Inoltre, l’idea dell’appuntamento “al buio”, la cosiddetta date è profondamente diversa dal mio stile di corteggiamento. Ho quasi sempre avvertito queste barriere culturali, soprattutto con le Americane. Così come le mie amicizie in terra Americana, i miei rapporti con l’altro sesso hanno teso naturalmente verso un pool europeo. Tuttavia, nella sociosfera del ciberspazio, stabilendo un contatto con le persone in base a valori ed interessi comuni, e non in base alla vicinanza geografica, sono riuscito a condividere pensieri e sentimenti con le cybergrrls , in tal modo sormontando reciproche barriere. In breve, nella mia esperienza, la presenza fisica si è dimostrata essere di fatto irrilevante (se non addirittura controproducente) nel comunicare emozionalmente con gli Americani; un rapporto che, entro certi limiti, mi è stato restituito attraverso la comunicazione mediata.

Professionalmente, la mia ricerca di internazionalismo ha trovato espressione nella “Rough Guide to the Internet: Italy”, che ho scritto per la nota rivista Britannica .net/ (Farinelli, 1995). Con un clic del mouse ho avuto l’incarico, e con un altro clic ho consegnato il pezzo, completato tramite messaggistica elettronica personale con il direttore della rivista. Non fosse stato per la comunicazione mediata, sarebbe stato per me alquanto improbabile poter scribacchiare quell’articolo girovagando per Roma, sapendo che sarebbe stato distribuito nelle edicole inglesi. Nel mio caso specifico, la text-based CMC mi permette di mantenere un contatto con il lato acquisito della mia personalità, vivendo in Italia. Per un periodo, la comunicazione mediata da computer ha integrato ed in parte anche sostituito talune delle mie relazioni locali. Nel tempo, ciò ha portato ad un lieve sentimento di indifferenza per le persone vicine, così come ad un senso di frustrazione simile a quello descritto ne, “Il Villaggio Inconseguibile” del filosofo polacco Leszek Kolakowski, dove l’impossibilità del singolo di agire a livello globale può portare a cercare rifugio nella tradizione, nella religione, nella madrepatria (Kolakowski, 1990). Nel mio caso, ciò può essere interpretato come un effetto collaterale reversibile della Internet-based CMC, il più efficace mezzo di comunicazione globale attualmente disponibile.

Complessivamente, il potenziale per la creazione di un sistema di comunicazione effettivamente globale e multiculturale dovrebbe essere accolto come un’opportunità positiva, laddove le persone rispettino le rispettive identità socioculturali. In particolare, l’impegno dei non anglosassoni nel padroneggiare una comunicazione mediata basata prevalentemente sulla cultura Americana e sulla lingua inglese dovrebbe essere riconosciuto, ed il loro contributo di diversità culturale percepito come un arricchimento per la collettività. La comunità Internet dovrebbe rendersi conto che l’acquisizione, da parte delle minoranze linguistiche-culturali dei mezzi per comunicare globalmente è nell’interesse comune, e che ciò non debba portare ad uno stemperamento delle loro identità nazionali ed etniche. In conclusione, per porre le fondamenta per un ambiente di comunicazione effettivamente globale e multiculturale, gli utenti Internet dovrebbero tener presente che il ciberspazio non è sotto la giurisdizione di alcuno Stato-seppure, oggigiorno, la maggioranza dei Netizen esibiscono un passaporto Americano.


Disunione Europea

Vista dagli Stati Uniti, l’Europa potrebbe sembrare unita. Tuttavia, circoscritte identità nazionali mantengono divisi gli europei, persino a livello regionale, e tradizioni culturali di stampo dialettale, etnico e religioso gli impediscono di essere gli Stati Uniti d’Europa. Nonostante l’ultimo appello di François Mitterrand sulla necessità di uno “spirito comune europeo”, l’Unione rimane una debole confederazione di Stati sovrani, i quali tendono la loro sovranità nazionale a questa o quella particolare questione (Unione Monetaria ed Economica, sicurezza, etc.). Questo progetto selettivo di integrazione ha poco a che fare con un senso comune di identità, ma piuttosto con la convenienza. Di fatto, non esiste un profondo sistema di valori “linguistico-culturale europeo”, così come i miei vicini di casa non mi capirebbero se gli parlassi in Esperanto, mentre potrei tranquillamente parlarci in romanaccio. L’ironia è che più l’Unione Europea tenta di risucchiare della sovranità nazionale dai suoi Stati Membri, più lo spettro del nazionalismo rischia di resuscitare. Proiettando tale questione in uno scenario futuristico di comunicazione integrata a livello globale, tal meccanismo disintegrativo potrebbe ben essere innescato.

Globalizzazione della Comunicazione: Rischi ed Opportunità

Si potrebbe affermare che un serio rischio di una malgestita globalizzazione della Società dell’Informazione, lasciata alla mano invisibile del mercato neoliberista, è nella perdita di tradizioni ed identità locali a favore del “bene comune”. La natura transnazionale di Internet, l’adozione dell’Inglese come lingua franca, il relativo predominio dell’industria multimediale Americana, nonché la penetrazione del mercato mondiale delle tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione da parte delle multinazionali hanno persuaso le nazioni europee del pericolo di essere denudate del loro patrimonio culturale. Analogamente a ciò che potrebbe succedere tra gli Stati Membri dell’Unione Europea, restrizioni delle autorità locali sarebbero collegate ad un senso di impotenza nazionale, che, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe portare ad un tumulto di patriottismo degenere.

Le recenti ” guerre culturali ” Franco-Americane ne sono un esempio lampante (Andrews, 1995). Nel mettere in guardia le nazioni europee per il loro eccessivo controllo governativo sulla cultura, in ” Why Europe Is So Unwired “, Nicholas Negroponte dichiara: “Svariati movimenti artistici, industriali ed intellettuali sono contraddistinti da impeti nazionali ed etnici. La rivoluzione digitale non è uno di questi. Il proprio etos è generazionale e di natura giovanile.” (Negroponte, 1994).

Se la diversità culturale possa coesistere all’interno di una Società dell’Informazione effettivamente di natura globale e multiculturale è tutt’altro che una questione esclusivamente europea. Su Internet, l’America gode di un vantaggio competitivo, mentre radicate tradizioni storiche limitano gli europei dal viaggiare liberi sulle cosiddette autostrade dell’informazione.

Per ipotesi, se gli europei dovessero crescere i propri figli unicamente su film e musica Americana, nutriti da Coca-Cola e hamburger, quali nuove idee avrebbero le future generazioni continentali da offrire ai loro coetanei d’oltremare? Chi potrebbe tramandare ai giovani europei come vivevano i loro progenitori, e chi gli insegnerebbe le loro madrelingue? Sul preservare le diversità culturali i Francesi hanno un argomentazione ragionevole, anche se il modo in cui la esprimono è quasi controproducente.

Nell’era digitale, un approccio Eurocratico alla salvaguardia della diversità culturale è destinato a fallire. Tuttavia, la mano invisibile del cosiddetto libero mercato non tutelerà assolutamente il patrimonio culturale mondiale.


Potremmo iniziare dal basso, riconoscendo le distinte identità locali come arricchimento culturale, per coltivare un dialogo tra noi tutti, che potrebbe porre le basi per la risoluzione di conflitti internazionali che i nostri genitori non sono stati capaci di risolvere. La comunicazione mediata da computer è un potente medium attraverso il quale il Villaggio Globale potrebbe riunirsi. Ciò nondimeno, potremmo aver sperimentato tutti come andare all’estero rafforzi emotivamente i legami con il proprio paese, seppur in assenza di un’esperienza fisica. La tentazione di dar sfogo ai nostri istinti di patriottismo degenere potrebbe essere latente in ognuno di noi, nel varcare più di frequente i domini multiculturali del ciberspazio. L’opportunità per un sistema di comunicazione realmente globale e multiculturale è enorme, seppur mediato dai computer. Se le Nazioni Unite non sono attualmente in condizione di farci sentire tutti cittadini dello stesso mondo, forse abbiamo un’altra possibilità qui nel ciberspazio-oppure la nostra opera di community-building rispecchierà in negativo l’esperienza della vita reale? Senza attendere che i progetti pilota dei G7 ci sconvolgano la vita, né che i tecnocrati convengano sui protocolli Internet di ultima generazione, ogni Netizen ha ora l’opportunità di dar vita e condividere la propria rete di contatti internazionali.

Sarebbe eccessivamente idealistico chiedere che le giovani generazioni prendano coscienza del fatto che la sostenibilità del mondo in cui viviamo è nell’interesse comune? È utopistico augurarsi che le nuove generazioni della società civile riconoscano il contributo che possono offrire alla risoluzione delle questioni globali? Cruciale a questa presa di coscienza globale è la comprensione reciproca delle proprie necessità e capacità – una realtà che, di fatto, ben si percepisce tramite la comunicazione mediata da computer. La mia aspettativa di lungo-periodo è che, nel processo di globalizzazione della comunicazione, ciascuno di noi arrivi a percepire un senso di appartenenza globale, che vada oltre qualsiasi retaggio di barriere culturali.

Dedicato a Valeria

Copyright © 2001 di Marco Farinelli . Tutti i Diritti Riservati.

Note Bibliografiche
Fredrick, H. H. (1993) Global Communication & International Relations. Belmont, CA: Wadsworth Publishing Co.
Harasim, L. M. (1993). Global Networks: Computers and International Communication. Cambridge, MA: MIT Press.

Marco Farinelli è nato a Roma nel 1967. Formatosi accademicamente alla Università della Pennsylvania, a Filadelfia, dove nel 1992 ha ricevuto il Master in Politica Internazionale, specializzazione in Relazioni Internazionali. Dopo aver prestato servizio militare presso il Ministero della Difesa, ha ottenuto il riconoscimento del suo titolo di studio americano con Laurea in Scienze Politiche, indirizzo Politico-Internazionale, dall?Università degli Studi di Bologna. Consulente Internet dal 1994, è Membro del Comitato Tecnico del Pirelli Internetional Award . Vincitore nel 1989 del Premio Letterario Vittorini della ?America-Italy Society of Philadelphia?, Marco scrive poesia.

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Pubblicato il
12 ott 2001
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