Tutti i numeri del diritto d'autore

Tutti i numeri del diritto d'autore

Sono le cifre citate più di frequente quando si tratta di ragionare sui costi della pirateria. In ballo ci sono anche molti posti di lavoro. Ma le cifre sono vecchie di decenni, e forse non tutte sono proprio giuste
Sono le cifre citate più di frequente quando si tratta di ragionare sui costi della pirateria. In ballo ci sono anche molti posti di lavoro. Ma le cifre sono vecchie di decenni, e forse non tutte sono proprio giuste

Migliaia di posti di lavoro persi e centinaia di miliardi di dollari andati in fumo: sono questi i cardini delle argomentazioni delle major a sostengo della persecuzione in tribunale di decine di migliaia di utenti del file sharing: secondo i detentori dei diritti si tratta dell’equivalente di ladri, che finiscono per causare danni a lavoratori onesti che pagano le tasse. Ma sono cifre che, si discute in queste ore, potrebbero risultare molto diverse dalla realtà .

A ribadire un concetto già ammesso persino dagli esponenti dell’industria, è una inchiesta di Ars Technica che, scavando tra documentazione di stato e archivi della Library of Congress , è riuscita almeno a stabilire che la strategia delle major consiste nel riutilizzare gli stessi numeri messi in circolazione più di venti anni fa , ribadendo fino all’ossessione le stesse cifre e rendendo sempre più complesso risalire all’origine delle stesse.

La prima cifra usata dalle major come motivazione della crociata in difesa del copyright contro la pirateria è quella dei 750mila posti di lavoro persi (non è chiaro se all’anno o in totale) risalirebbe addirittura al 1986 . L’agenzia U.S. Customs and Border Patrol , spesso citata come fonte per il dato, utilizza quel numero già in una press release del 2002 ma, contattata dai reporter di Ars, ha candidamente ammesso di non essere responsabile per la produzione di quella stima.

Scavando ancora più indietro nel tempo si arriva a un numero dello storico quotidiano The Christian Science Monitor che, citando l’allora segretario del commercio Malcom Baldridge, parla di una stima dei posti di lavoro persi per la contraffazione dei beni di consumo “compresa tra 130.000 e 750.000”. Una successiva richiesta di informazioni al Dipartimento del Commercio in forza del Freedom of Information Act non ha recuperato alcunché nei documenti ufficiali presenti negli archivi, contribuendo a rafforzare l’alone di mistero .

E se anche, nella a questo punto inverificabile ipotesi in cui queste cifre fossero vere, si tratterebbe sempre di numeri riferiti alla contraffazione “complessiva” di tutti i beni di consumo e non soltanto dei danni causati da file sharing e pirateria in generale. Un numero vecchio di oltre 20 anni ma che, nonostante questo, è stato ripescato per spingere l’adozione del famigerato EIPRA in via di approvazione al Congresso USA.

La stessa propensione al mistero caratterizza l’altro “magic number” della crociata delle major statunitensi e le relative lobby politiche: quei 250 miliardi di dollari di perdite nei ricavi delle suddette major. Tutto molto aleatorio, perso in un passato che si smaterializza sino a un numero della rivista Forbes risalente al 1993. Nel magazine suddetto si cita come fonte l’ International Anti-Counterfeiting Coalition , ma scavando negli archivi si scopre come quelle stime fossero riferite al mercato della contraffazione mondiale nel suo complesso, e non semplicemente alla pirateria statunitense.

Resta il problema di stabilire il reale danno arrecato ai detentori dei diritti. Scaricare da BitTorrent un album dal valore di 12 dollari non equivale necessariamente – sostiene Ars – a una effettiva “perdita” di denaro: anzi, secondo i giornalisti d’oltreoceano quella somma è ancora lì perché qualcuno possa spenderla per qualcos’altro. Per stabilire concretamente le perdite dovute al “furto” della proprietà intellettuale digitale in questione occorrerebbe valutare, sul lungo periodo, quale sia stato l’effetto della perdita di quei 12 dollari per il business del detentore dei diritti: secondo Ars, ciò sarebbe possibile sottraendo quel valore agli incassi del settore dove esso verrà utilizzato, tenendo anche in debita considerazione il “peso morto” di materiale distribuito gratuitamente al pubblico come il software free o gli MP3 gratuiti, promozionali o a costo libero .

Calcolare la “reale” portata del furto della proprietà intellettuale nella società dell’informazione, conclude Ars, è nella migliore delle ipotesi enormemente complicato e nella peggiore sostanzialmente impossibile. Le major, al contrario, non perdono occasione per ripetere i due “numeri magici”, mantenendo il più stretto riserbo sui dettagli e le modalità di analisi che sarebbero servite a calcolare quei valori.

Alfonso Maruccia

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Pubblicato il
9 ott 2008
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