Caso Vividown, le motivazioni

Caso Vividown, le motivazioni

Da un documento di oltre cento pagine, i primi estratti per spiegare il perché della condanna ai tre dirigenti di Google. Informativa sulla privacy del tutto carente e un principio: Internet non è una prateria
Da un documento di oltre cento pagine, i primi estratti per spiegare il perché della condanna ai tre dirigenti di Google. Informativa sulla privacy del tutto carente e un principio: Internet non è una prateria

Estratti delle ampie motivazioni stanno rimbalzando in Rete a gettare nuove luci sull’ormai noto caso Vividown . Brevi estratti, in attesa dell’analisi delle 111 pagine del documento completo.

Il giudice di Milano Oscar Magi l’ha spiegato a chiare lettere: non può esistere la sconfinata prateria di Internet dove tutto sia permesso e niente possa essere vietato. “Esistono invece leggi che codificano comportamenti e che creano degli obblighi – ha continuato il giudice – obblighi che, ove non rispettati, conducono al riconoscimento di una penale responsabilità”.

Come dalle cronache giudiziarie, il 24 febbraio scorso tre dirigenti di Google – David Carl Drummond, ex Presidente del CdA di Google Italia, George Reyes, ex membro del CdA di Google Italia e Peter Fleischer, responsabile delle strategie del gruppo – erano stati condannati dal Tribunale di Milano per violazione della privacy. Sei mesi di reclusione con sospensione della pena.

Per Magi , “Google Italia trattava i dati contenuti nel video caricati sulla piattaforma di Google Video e ne era quindi responsabile perlomeno ai fini della legge sulla privacy”. La stessa informativa sulla privacy sarebbe stata del tutto carente, o comunque talmente nascosta nelle condizioni generali di contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge .

Non vi sarebbe dubbio che “almeno parte del trattamento dei dati immessi a Torino sia avvenuto fuori d’Italia, in particolare negli Stati Uniti, luogo dove hanno indubitabilmente sede i server di Google”. Magi ha quindi sottolineato come una scritta su un muro non costituirebbe in sé un problema per il proprietario del muro stesso, ma il relativo sfruttamento commerciale potrebbe esserlo, almeno in determinate circostanze.

Come accaduto già a febbraio, il presidente del gruppo parlamentare Il Popolo della Libertà (PdL) al Senato Maurizio Gasparri è intervenuto a commentare le recenti novità emerse sul caso scatenatosi nel 2006. “Sono passati quasi due mesi dalla sentenza del Tribunale di Milano – ha dichiarato Gasparri – ed ancora non risulta che i vertici del provider Google abbiano preso delle iniziative per rendere il motore di ricerca più sicuro”.

“Dopo le decisioni del Tribunale resta – ha continuato il capogruppo – il grande silenzio di Google che non si è chiaramente espressa con delle iniziative o nuovi strumenti a tutela degli utenti contro la diffusione incontrollata di contenuti violenti. Resta certamente un vuoto normativo al quale va comunque posto rimedio. Ma nell’attesa ci saremmo aspettati da un’azienda nota come Google maggior senso della responsabilità e qualche iniziativa che potesse dimostrare la buona fede di allora dei vertici”.

Mauro Vecchio

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Pubblicato il
12 apr 2010
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