Che novità, la BSA non ci sta

Che novità, la BSA non ci sta

La sentenza del tribunale torinese non convince l'alleanza dei produttori del software che intende proseguire sulla sua strada. Ma nel comunicato non c'è traccia di nuove riflessioni
La sentenza del tribunale torinese non convince l'alleanza dei produttori del software che intende proseguire sulla sua strada. Ma nel comunicato non c'è traccia di nuove riflessioni


Roma – Mi ha deluso ricevere questa mattina il comunicato stampa della Business Software Alliance , deluso perché è giunto con una puntualità irritante dopo la sentenza che a Torino ha scosso l’ambiente del software. Irritante, perché quanto accaduto rappresentava un’occasione per riflettere sul fenomeno pirateria in modo nuovo, per prendere atto di novità importanti e per rivedere l’approccio al problema. Il frettoloso comunicato stampa che ci è arrivato è invece un’occasione perduta.

Nella nota si legge: “la Business Software Alliance, l’associazione senza scopo di lucro che rappresenta i produttori di software, contesta fermamente la sentenza del giudice di Torino, affermando l’importanza di riconoscere l’illiceità penale dei comportamenti delle aziende che copiano software”. E avverte: “In ogni caso, questa sentenza non rallenterà in alcun modo le nostre attività contro la duplicazione illegale del software. Infatti, i soci di BSA che sono stati lesi dal comportamento dell’imprenditore torinese valuteranno la promozione di cause civili per ottenere il risarcimento dei danni”.

Al di là di quello che i tribunali decideranno in futuro, la sentenza di Torino avrebbe potuto aprire alla BSA nuovi orizzonti di riflessione. Prima di tutto avrebbe potuto far riflettere sul fatto che non basta una legge, come quella proposta dalla BSA e oggi in Parlamento, per reprimere un comportamento. Pene maggiori, sanzioni killer non risolvono. Basti vedere le statistiche sulla “pirateria”, sempre più allarmate, che ogni anno ci mettono sotto il naso proprio gli esperti della BSA.

La sensazione, dunque, è che alla BSA interessi mantenere una inamovibile posizione di condanna per legittimarla il più possibile anche dinanzi al mutare degli scenari. Una posizione che forse dovrebbe cedere qualcosina ad una più serena riflessione. Senza, il rischio è che la rocca finisca per crollare sotto l’onda d’urto di un improvviso terremoto. Un esempio di questo sta nelle trasformazioni indotte da due “arieti di sfondamento” come internet e il “movimento open source”.

La rete significa infatti per gli utenti infinite possibilità di scambiarsi qualsiasi software copiandolo a vicenda, vendendoselo, trasmettendolo l’uno all’altro. Su siti frequentatissimi ì, come quelli delle aste, pare che il 91 per cento dei software venduti sia privo di licenza. Per non parlare poi dell’emergente mercato delle applicazioni disponibili su sistemi remoti, un settore esplosivo che di certo è destinato sul medio e lungo termine a dare un ulteriore scossone al mercato “tradizionale” del software. La risposta della BSA a tutto questo pare girare esclusivamente attorno ad un nodo: sanzioni più severe. Nella convinzione, sistematicamente smentita dai fatti, che a pene più rigide corrispondano comportamenti diversi.

Nella convinzione, anche, che indurre nelle imprese e negli individui questi comportamenti diversi sia sacrosanto. La BSA si dice convinta che un imprenditore che compra un software e poi lo duplica per installarne una copia su un altro suo computer è un ladro. Ma siamo sicuri che sia così in ogni caso, in ogni situazione e senza eccezioni? Non varrebbe la pena rifletterci sopra? Parlarne?

Ma la sentenza di Torino era anche un’occasione per affrontare le implicazioni del free software sull’industria di settore, perché ci si può attendere che dinanzi ai nuovi trend qualcosa la BSA abbia da dire. Visto soprattutto che la diffusione di free software o di sistemi cresciuti nella culla dell’open source scardina alla base il fondamento stesso della lotta antipirateria, trasformando il rapporto tra produttore e fruitore di tecnologia. Ci sarebbe da scriverne a quintalate su questo, e quasi mi pento di parlarne così frettolosamente, ma non è certo un caso che Linux conosca un boom presso le imprese che fanno un uso intensivo di tecnologie di rete. Come non è un caso che se un software costa poco finisca per essere effettivamente comprato e non copiato, perché il valore aggiunto dell’originale può valere la spesa. E ‘ su questo che si giocherà il futuro del mercato, eppure questo non pare sufficiente ad attivare nuove riflessioni.

Molti dei produttori che realizzano e distribuiscono i software oggi in circolazione vivono, per dirne una, di rendite di posizione legate al mercato che era prima di internet e dell’open source. Oggi la rete sta modificando le dinamiche della produzione e della vendita, dove la prima è sempre più collaborazione tra soggetti indipendenti e la seconda è una fornitura di valore aggiunto, di servizi, che vanno ben oltre il software nudo e crudo. Il concetto stesso di pirateria, e non solo nel mondo del software, si sta modificando, perché cambia l’uso del singolo prodotto e il suo senso all’interno dell’impresa. Una realtà e una direttrice evolutiva che appare sempre più in contrasto con l’inamovibile arroccamento dell’alleanza dei produttori.

Ci sarebbe altro da aggiungere, ma in sostanza l’impressione è che la BSA abbia confermato di non essere attrezzata per rispondere alle sfide che l’era di internet pone ai modelli di business di cui è emanazione. E il rischio, oltre al finire travolti da una rivoluzione, è che per far valere ciò che si ritiene un proprio diritto si finisca per calpestare quello degli altri. E di farlo, per di più, cantando vittoria.

Paolo De Andreis

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Pubblicato il
21 apr 2000
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