Contrappunti/ Quello che so io di Steve Jobs

Contrappunti/ Quello che so io di Steve Jobs

di M. Mantellini - Sarà meglio mantenere la calma. Nessuno ha la sfera di cristallo per predire ciò che sarà di Apple e dell'IT tra 1 mese: figuriamoci tra 1 anno. E Jobs comunque è ancora lì
di M. Mantellini - Sarà meglio mantenere la calma. Nessuno ha la sfera di cristallo per predire ciò che sarà di Apple e dell'IT tra 1 mese: figuriamoci tra 1 anno. E Jobs comunque è ancora lì

Due cose vorrei scrivere, anzi tre, sulla lettera di Steve Jobs che comunica il suo passo indietro, questa volta definitivo, dal ruolo di amministratore delegato in Apple. La prima è che fortunatamente non è morto. Forse non sarebbe male rimandare saluti e rimpianti ad un altro momento che speriamo lontano. Ho letto molte analisi accurate e intelligenti sul futuro di Apple senza Jobs, sfuggite di penna prima che tale condizione facesse pesare definitivamente la propria evidenza. Quindi magari, per ora, stiamo hungry e stiamo foolish , ancora per un po’, ancora tutti assieme, fino a quando è possibile.

Premesso questo, la prima cosa che mi colpisce di tutte queste parole, dei ricordi di chi c’era, degli aneddoti quasi familiari di chi ci ha lavorato assieme, della immensa enciclopedia alla voce Steve Jobs che si è rumorosamente scaricata sul Web in queste ore, è il paradosso biografico di quest’uomo. Esiste un diffuso desiderio di prossimità nei suoi confronti, espresso con nettezza in Rete e sui giornali: un tentativo di catalogazione e giudizio affidato ai tanti minuscoli frammenti di racconto che è possibile rintracciare nelle narrazioni in Rete. Da questo punto di vista Jobs – una volta messa a comune denominatore una certa antipatia di pelle che gli è stata da sempre riconosciuta ma che, in questi tempi di gravi malanni fisici, viaggia sottotraccia – è tutto ed il suo contrario.

È il grande capo cerbero e l’amico visionario, è l’indaffarato businessman che legge le mail di tutti e l’isterico pignolo che ti telefona la domenica mattina mentre sei a messa perché non gli piace una piccola parte di una piccolissima icona su iPhone. Il racconto di Jobs in rete, la sua descrizione per molteplici interposte persone, è una babele di segni opposti ed è anche, in ultima analisi, la descrizione minuziosa ed impossibile di un uomo che molti di noi identificano con l’amore per i suoi prodotti. Un uomo mitizzato per via di ciò che l’azienda che dirige ha saputo creare ma del quale, in definitiva, non sappiamo granché. E, a pensarci bene, forse nemmeno ci interessa.

Perché l’unico tema rilevante rischia di essere, in fondo e banalmente, quello egoistico della continuazione del sogno. Gli ultimi dieci anni di Apple sono stati un periodo di enormi rivolgimenti: a differenza di mille altre rivoluzioni piccole e grandi, alcuni di questi cambi di paradigma hanno inciso profondamente sul nostro orizzonte culturale molto prima che su quello tecnologico. Apple, Amazon, Google e pochissimi altri hanno saputo sconvolgere le nostre abitudini di esseri pensanti, hanno mutato il nostro rapporto con l’informazione, i libri, la musica, le relazioni umane. Lo hanno fatto senza chiedere permesso, talvolta brutalizzando gli standard e proponendo una visione avvolgente, senza possibili repliche. Per qualche motivo ci è piaciuta, l’abbiamo adottata in massa, il resto dell’industria si è accodata ed ora tutto questo è anche un po’ nostro. Forse molti di questi cambiamenti sarebbero avvenuti comunque ma da iPod a iTunes, da Kindle a iPad questi oggetti e la scia culturale che ne è seguita, hanno rappresentato un chiaro segno di discontinuità.

Così l’unico argomento oggi degno di nota, pur nella sua impresentabilità, è se tutto questo finirà con Steve Jobs, se – come scrive David Pogue sul New York Times – la personalità di Jobs una volta definitivamente uscita dai corridoi di Infinite Loop, potrà essere in qualche modo sostituita da quella di altri. Oppure se, come le cronache tendono a raccontarci in questi giorni, in Apple verranno istituite, in una sorta di pedissequa ricostruzione dei modi e dei tic del fondatore, una serie di prassi codificate e ritenute vincenti, come è d’uso negli stilemi del più ingenuo pragmatismo americano. Squadra che vince non si cambia insomma, anche quando la squadra non c’è più.

Io non so se – come scrive Stefano Quintarelli sul suo blog – una delle ragioni principali del grande successo di Apple sia stata in questi anni la brevità della catena decisionale che riconduceva al capo scelte e responsabilità. Forse si tratta di un eccesso di semplificazione o forse no. Di sicuro si tratta di uno schema monarchico inapplicabile nella grandissima maggioranza delle aziende, compresa probabilmente la Apple post-Jobs. Se così fosse, se così davvero è stato nell’ultimo decennio, l’identificazione fra biografia e produzione potrà dirsi infine completa. Con tutte le conseguenze del caso.

Massimo Mantellini
Manteblog

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Pubblicato il
29 ago 2011
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