National Geographic ritrova le parole

National Geographic ritrova le parole

Due linguisti sono andati nei luoghi più remoti della Terra per scovare popolazioni che parlano lingue autoctone. Hanno trasferito tutto in dizionari parlanti per preservare le lingue del passato
Due linguisti sono andati nei luoghi più remoti della Terra per scovare popolazioni che parlano lingue autoctone. Hanno trasferito tutto in dizionari parlanti per preservare le lingue del passato

Sono settemila in totale le lingue parlate sul nostro Pianeta che rischiano di cadere nel dimenticatoio entro la fine di questo secolo: ogni volta che un idioma muore si estingue la ricchezza, la cultura e l’ambiente naturale che rappresentava. In occasione della International Mother Language Day del 21 febbraio, National Geographic’s Enduring Voices ha annunciato il lancio dei Talking Dictionaries , dizionari parlanti messi a punto per preservare le lingue a rischio di estinzione. Il progetto è stato condotto in collaborazione con Living Tongues Institute for Endangered Languages e punta a far conoscere le lingue dei luoghi più remoti del nostro Pianeta: alcuni idiomi non erano mai stati registrati o codificati e vengono tramandati solo oralmente. I dizionari parlanti contengono più di 32mila voci appartenenti a otto linguaggi a rischio , 24mila registrazioni audio in lingua e tantissime fotografie degli oggetti simbolo di queste culture.

I Talking Dictionaries sono nati grazie al lavoro di David Harrison, professore associato di linguistica presso lo Swarthmore College e membro del National Geographic, e Gregory Anderson, presidente della Living Tongues Institute for Endangered Languages . I due linguisti hanno viaggiato il mondo in lungo e in largo in cerca degli ultimi esponenti di queste lingue sconosciute e hanno presentato il proprio lavoro a Vancouver al convegno annuale della American Association for the Advancement of Science (AAAS)

La tecnologia arriva, dunque, in aiuto degli autoctoni. Ma alcuni di questi popoli dimostrano di essere già abbastanza attrezzati per proteggere il proprio linguaggio. “Le lingue piccole utilizzano i social media, YouTube, gli SMS e altre tecnologie per amplificare la propria voce. È quello che mi piace chiamare l’altra faccia della globalizzazione – ha dichiarato David Harrison – un effetto positivo della globalizzazione è che grazie alla tecnologia digitale, una lingua parlata solo da cinque o 50 persone in un luogo remoto, ora può raggiungere un pubblico globale”.

Perché alcune lingue evolvono mentre altre si perdono nel tempo?. Nel corso della storia, le lingue degli stati più grandi e forti si sono diffuse con più facilità, mentre quelle delle piccole culture si sono estinte. Questo è avvenuto attraverso politiche linguistiche ufficiali che hanno portato alla repressione dei linguaggi autoctoni o grazie all’idea che parlare una lingua “imperiale” conferisse fascino e prestigio (si veda, ad esempio, il francese parlato nelle grandi corti europee durante il ‘700). I bambini nati in queste piccole comunità, normalmente, crescono imparando la lingua dominante e il linguaggio originale finisce con l’essere conservato nella memoria di un paio di anziani. Una delle lingue salvate dai dizionari online del National Geographic è quella dei nativi americani Siletz Dee-ni, lingua un tempo diffusa in tutto l’Oregon e oggi parlata correttamente solo da un uomo: Alfred “Bud” Lane. “Questo dizionario parlante è e sarà una grande arma nella lotta che stiamo combattendo per mantenere viva la lingua lingua” ha affermato Lane, che ha registrato 14mila parole per il dizionario in Siletz Dee-ni.
Il progetto è riuscito a codificare anche altre lingue semi scomparse: il Matukar Panau, parlato da appena 600 persone nella Papua Nuova Guinea; il Chamacoco, parlato nel nord del Paraguay; o il Tuvano, parlato in Russia e in Mongolia.

Gabriella Tesoro

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Pubblicato il
22 feb 2012
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