Nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro mette a disposizione i mezzi perchè il prestatore d?opera possa proficuamente svolgere le proprie mansioni.
Questi attrezzi di lavoro vanno dalla scalpello alla workstation.
Così il dipendente può avere a proprio disposizione un computer con una E- mail personale. Personale fino a quanto?
Un tecnico di informatica potrebbe serenamente risponderci che messaggi inviati da postazioni lavorative collegate ad un server, rimangono registrati in quest?ultimo, a prescindere dall?utilizzo di fantasiose password. Quindi, il datore di lavoro, potrebbe, tecnicamente, entrare e leggere la posta elettronica del dipendente.
La domanda che a questo punto può angosciare l?imprevidente dipendente è se sia lecita l?ingerenza del datore di lavoro.
Gli esempi d?Oltreoceano non sono confortanti
Per i giudici statunitensi, il datore di lavoro ha tutto il diritto di frugare nella corrispondenza del dipendente, in ossequio dell?interesse aziendale di controllare i messaggi inviati dal posto di lavoro.
Per l?esempio nazionale occorre svolgere alcune riflessioni.
Infatti, al dipendente è affidato in uso uno strumento aziendale, finalizzato allo svolgimento delle mansioni sue proprie, nell?interesse del datore di lavoro e non a fini personali.
Di contro la segretezza della corrispondenza del dipendende sembra essere un diritto primario, garantito e prevalente.
Ammettere la legittimità del controllo sulla corrispondenza privata (ancorché elettronica) del dipendente equivarrebbe a legittimare il datore di lavoro ad entrare nella vita privata del proprio impiegato.
Non bisogna dimenticare che via E-mail possono essere inviati (o ricevuti) messaggi che rivelino le opinioni politiche, sindacali, religiose del dipendente.
Questo potrebbe, in ultima battuta, essere discriminato, all?interno del luogo di lavoro, per le proprie confessioni religiose, opinioni politiche od appartenenza ad una organizzazione sindacale.
Tale comportamento è di tutta evidenza illegittimo, in aperta violazione con la lettera e lo spirito della legge 300/70, meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori.
L?art. 1 dello Statuto sancisce espressamente che i lavoratori hanno diritto di manifestare il proprio pensiero.
L?art. 8 della stessa disposizione vieta al datore di lavoro qualsiasi indagine sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore.
In capo al datore di lavoro ?ficcanaso? potrebbe ascriversi la violazione dell?art. 616 c.p., che punisce con la reclusione fino ad un anno o con la multa sino a un milione, chiunque prenda cognizione del contenuto di una corrispondenza a lui non diretta.
Occorre ricordare che, a mente della novella 547/93, per corrispondenza deve intendersi anche quella informatica o telematica.
Problema concreto potrebbe però essere rappresentato dal fatto che, in concreto, il dipendente non sarà in condizione dell?eventuale violazione della sua sfera di privacy.
I principi sin qui enunciati non debbono ovviamente essere assolutizzati.
Se il dipendente ha diritto al rispetto della propria libertà e dignità, non può certo defraudare il datore di lavoro nello svolgimento della collaborazione.
Così il lavoratore avrà diritto alla privacy della propria posta elettronica gestita sul suo posto di lavoro, ma questo, ovviamente, non lo legittima a ?chattare? per otto ore al giorno, anziché prestare l?attività lavorativa per cui è retribuito.
Un conto, infatti, è il contenuto della posta, altro è la frequenza degli accessi via internet.
Tra i primi doveri del dipendente occorre ricordare il rispetto del normale svolgimento dell?attività aziendale e l?adempimento dell?obbligo di prestare il proprio apporto lavorativo.
Scremati i casi estremi, sarà compito del Giudice, caso per caso, svolgere una comparazioni di interessi fra la tutela dei diritti del lavoratore e quelli del datore di lavoro.
Avv. Marco Boretti
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