Roma – Le audizioni sono cominciate già alla fine di ottobre, ma per avere una decisione bisognerà attendere la prossima estate. Solo allora i giudici della Corte Suprema Usa metteranno la parola “fine” ad una vicenda giudiziaria iniziata quattro anni fa. Il caso Ashcroft v. Free Speech Coalition vede contrapposti, da un lato, il Dipartimento di Giustizia statunitense e, dall’altro, la celebre associazione no profit che da anni si batte per la tutela della libertà di espressione, protetta dal Primo Emendamento della Costituzione federale.
Al centro del dibattito vi sono due disposizioni di un atto, firmato dal presidente Clinton nel 1996, volto ad adattare la legislazione statunitense sulla pornografia infantile al progresso tecnologico. L’atto in questione è il Child Pornography Prevention Act (Cppa). Mentre le disposizioni sospettate di incostituzionalità sono quelle che includono nella definizione di “pornografia infantile” anche le immagini sessualmente esplicite che ritraggono persone “che sembrano minori” o che sono pubblicizzate in modo tale da “dare l’impressione” che la persona coinvolta sia un minore.
Questo gioco tra realtà ed apparenza è una delle conseguenze più significative delle tecniche di morphing utilizzate, nel caso della pornografia infantile come in molti altri, per manipolare le immagini digitali, dando vita a vere e proprie “creazioni” virtuali. Una virtualità che va intesa, prima di tutto, come possibilità di realizzare materiale pornografico anche senza il coinvolgimento di minori in carne ed ossa e senza, quindi, che quelle immagini possano essere viste come la registrazione permanente di un abuso sessuale. È proprio su questa fondamentale differenza rispetto alle immagini pedopornografiche reali che la Free Speech Coalition ha iniziato la sua battaglia contro le citate disposizioni del Cppa.
Secondo i legali dell’associazione, le critiche che si possono muovere al Cppa riguardano diversi aspetti. Innanzitutto, la parificazione delle immagini pornografiche virtuali a quelle reali non è coerente con l’obiettivo che sta alla base della scelta legislativa di criminalizzare la pornografia infantile. Se tale obiettivo deve essere identificato nell’esigenza di tutelare i minori contro questa forma di sfruttamento sessuale, che senso ha vietare il possesso di immagini la cui realizzazione, frutto di un processo tecnologico di manipolazione, è avvenuta senza arrecare danno ad alcun minore?
La scelta di allargare la definizione di “pornografia infantile” alle riproduzioni visive sessualmente esplicite riguardanti persone “che sembrano minori” può avere, inoltre, effetti che trascendono la volontà del legislatore. Oltre alle immagini pedopornografiche “computer-generated”, infatti, il rischio è quello di travolgere una serie di lavori nei quali le simulazioni di scene sessuali tra minori o presunti tali sono in realtà manifestazioni della libertà di espressione artistica e nulla hanno a che vedere con la pedopornografia.
Per limitarsi a qualche esempio, anche celebri film come Romeo e Giulietta, Lolita, Titanic e, da ultimo, Traffic potrebbero rientrare nella sfera di applicazione del Cppa. In essi, infatti, vi sono sequenze a contenuto sessuale che un’interpretazione estensiva delle norme citate potrebbe portare a considerare pornografia infantile e pertanto ad essere perseguite e censurate. Questa interpretazione potrebbe spingersi, infine, sino a chiedere l’incriminazione per detenzione di materiale pedopornografico di chi possiede, o noleggia, film simili.
Diversa è, ovviamente, la posizione del Dipartimento di Giustizia statunitense, per il quale l’allargamento della definizione di “pornografia infantile” nasce prima di tutto dalla necessità di disporre, anche sul piano giuridico, di strumenti adeguati a contrastare nel modo più efficace il mercato della pedopornografia via Internet. È proprio in questa più ampia prospettiva che si giustifica la parificazione delle immagini pedopornografiche virtuali a quelle ottenute mediante il coinvolgimento diretto di minori.
Nella maggior parte dei casi, infatti, le creazioni “computer-generated” vengono spacciate per registrazioni di abusi sessuali realmente avvenuti e come tali vengono immesse nei circuiti di scambio della rete. La produzione e la distribuzione di simili creazioni, anche quando realizzate senza arrecare danno ad alcun minore, possono avere quindi un ruolo importante nel consentire al mercato della pedopornografia di mantenersi vivo, di crescere.
Alla base della scelta del legislatore vi sono, tuttavia, anche ragioni di carattere più “pratico”. Con l’evoluzione delle tecnologie di morphing, diventerà sempre più difficile, se non impossibile, distinguere tra immagini pedopornografiche computer-generated e ritratti fotografici di minori in carne ed ossa impegnati in attività sessuali. I riflessi di questo dato tecnico sull’attività giudiziaria? Se il legislatore non operasse una parificazione tra immagini reali e virtuali, i giudici si troverebbero di fronte alla difficoltà, se non all’impossibilità, di provare che una determinata immagine è stata realizzata con il coinvolgimento di minori reali e, quindi, di applicare la legislazione in materia di pornografia infantile.
Relativamente ai timori manifestati dalla Free Speech Coalition sul rischio che un’eccessiva dilatazione del concetto di pornografia infantile possa comprimere la libertà di espressione, il Dipartimento di Giustizia assume una posizione precisa. Applicando la corretta interpretazione della legge, e rispettando, quindi, la volontà del legislatore, questo rischio non esiste. Nella definizione di pornografia infantile proposta dal Cppa, infatti, debbono ritenersi comprese soltanto quelle immagini che siano “virtualmente indistinguibili” da quelle realizzate con lo sfruttamento sessuale di minori reali. Una definizione, questa, che non può certo essere applicata alle manifestazioni di libertà di espressione artistica.
Prima di approdare alla Corte Suprema, la questione della conformità delle due disposizioni del Cppa al Primo emendamento è già stata affrontata, nel 1997, da un giudice di primo grado, che si è pronunciato per la costituzionalità della legge.
Ma, in seguito al ricorso della Free Speech Coalition, nel 1999 la Corte d’Appello del Nono circuito ha rovesciato la prima pronuncia, accogliendo le censure di incostituzionalità sollevate, in base al rilievo per il quale la formulazione “altamente soggettiva e vaga” delle norme è tale da consentire un allargamento “ingiustificato” della definizione di pornografia infantile. La decisione ha sollevato numerose perplessità, soprattutto per il fatto che l'”apertura” operata dai giudici della Corte d’Appello potrebbe diventare una comoda via di fuga, da parte dei soggetti incriminati, per evitare probabili condanne. Così, questa volta, ad appellarsi è il Dipartimento di Giustizia statunitense.
La remissione del caso alla Corte Suprema darà a quest’ultima l’opportunità di fare chiarezza su una questione in relazione alla quale si registrano, oggi come in passato, posizioni discordanti. Agli sviluppi della vicenda giudiziaria si guarda con notevole interesse soprattutto per l’impatto che la sentenza potrà avere sull’interpretazione delle leggi dei singoli Stati contenenti previsioni normative simili. Sulla questione c’è attenzione anche dal vecchio continente, dove la firma della convenzione del Consiglio d’Europa sui cybercrime ha già messo gli Stati di fronte all’obbligo di adottare una disposizione sulla pornografia infantile che parifica immagini pornografiche reali e virtuali.