Quando la redazione usa i social media

Quando la redazione usa i social media

Alcuni editori provano a controllare il flusso informativo creato dai loro dipendenti sugli strumenti di condivisione online. E si attirano critiche. Ma anche quelli che non lo fanno incappano in certi problemi
Alcuni editori provano a controllare il flusso informativo creato dai loro dipendenti sugli strumenti di condivisione online. E si attirano critiche. Ma anche quelli che non lo fanno incappano in certi problemi

Nei giorni scorsi il Wall Street Journal ha imposto ai suoi giornalisti regole rigide per l’impiego dei social network, sollevando un acceso dibattito. Mentre al New York Times , dove le norme sarebbero meno stringenti, gli improvvidi cinguettii di due reporter hanno rischiato di creare un caso interno. Ma la domanda, valida per i giornali come (e più) che per le altre organizzazioni, resta sempre la stessa: è utile normare l’uso di strumenti sociali come Twitter e Facebook da parte dei propri dipendenti?

Il tema è senza dubbio attuale. In Italia ha già toccato altri tipi di organizzazioni, ad esempio alcune pubbliche amministrazioni – ma non sembra essere ancora arrivato sulle scrivanie dei caporedattori. Un po’ diversa la situazione negli Stati Uniti, dove già a marzo il Los Angeles Times aveva diramato una lunga lista di regole d’uso per i “social media”, con diversi divieti espliciti e la richiesta di considerare pubblico qualsiasi comportamento online .

Ma ad accendere il dibattito è stata la recente decisione del Wall Street Journal , che la settimana scorsa ha fatto circolare una lista dettagliata di prescrizioni (riprodotta qui ) su cosa fare e non fare in rete. Tra le altre cose, i redattori sono invitati ad astenersi dall'”accordare amicizia” alle fonti riservate, e a evitare ogni tipo di polemica all’interno degli spazi di dibattito online. “Offrire amicizia alle proprie fonti in modo aperto è come rendere pubblico tutto il nostro indirizzario” si legge in una delle norme. Un’altra recita: “Non criticate il lavoro dei colleghi o della concorrenza, ed evitate di promuovere le vostre attività in modo troppo aggressivo”.

Queste scelte prescrittive sono state criticate da molti. A giudizio del blogger e analista Jeff Jarvis, ad esempio, l’approccio adottato dal WSJ sarebbe controproducente, perché sottrae ai reporter la possibilità di lavorare in modo realmente collaborativo.

Ed in effetti altre organizzazioni editoriali adottano politiche meno stringenti. In alcuni casi, racconta Editor&Publisher , editori e caporedattori ammettono di non avere strumenti per controllare, per cui lasciano i dipendenti liberi di regolarsi autonomamente. In altri, addirittura, incoraggiano un uso aperto ed esplorativo degli strumenti a disposizione.

Il New York Times , ad esempio, non ha fornito regole rigide ai suoi dipendenti, limitandosi ad organizzare workshop interni per individuare i modi migliori di usare Twitter. “Ai miei dipendenti ho chiesto solo di usare buon senso, rispettando il giornale e non dimenticando mai che qualsiasi cosa scrivano sarà immediatamente collegata al Times” ha spiegato Bill Keller, anche lui convertito al verbo di Twitter qualche settimana fa.

Ma anche l’approccio liberale ha le sue controindicazioni. Nel corso di una riunione di redazione riservata dello stesso Times , la settimana scorsa, due dei giornalisti presenti hanno cominciato a cinguettare all’esterno sullo svolgimento e sugli esiti dell’incontro. E questo non deve aver fatto molto piacere a Keller, che nel corso di un meeting successivo si è trovato costretto a richiamare all’ordine i colleghi, chiedendo loro di non diffondere all’esterno le notizie e di mantenere uno “spazio interno di fiducia”.

Giovanni Arata

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Pubblicato il
18 mag 2009
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