Ricerca: l'Italia insegue il robot dei soccorsi

Ricerca: l'Italia insegue il robot dei soccorsi

Un drappello di giovani scienziati italiani si barcamena con i pochi, pochissimi fondi a disposizione per dar vita ad un cervello elettronico su ruote: software italiano, meccanica internazionale, sensori. Ecco di cosa si tratta
Un drappello di giovani scienziati italiani si barcamena con i pochi, pochissimi fondi a disposizione per dar vita ad un cervello elettronico su ruote: software italiano, meccanica internazionale, sensori. Ecco di cosa si tratta


Roma – L’idea è quella di costruire robot intelligenti a tal punto da rendere la vita più semplice agli uomini e persino assisterli. Un’idea che si fa largo ormai da tempo nel mondo della Ricerca, e qualche congegno hi-tech, non sempre “intelligente”, già viene usato in attività rischiose (dallo sminamento al controllo di involucri contenenti potenzialmente ordigni esplosivi). In Italia su questo fronte si muovono diversi progetti, che si scontrano con i già noti limiti finanziari con cui da lunghissimo tempo hanno a che fare gli scienziati del Bel Paese.

Un gruppo di giovani ricercatori italiani (poco meno di una decina fra borsisti e laureandi) da qualche anno sta lavorando al Rescue Robot , un piccolo cervello elettronico capace di muoversi su ruote nello scenario di catastrofi – naturali e non – alla ricerca di possibili sopravvissuti.

Il professor Daniele Nardi è ordinario di Intelligenza artificiale della Facoltà di Ingegneria alla Sapienza di Roma, già noto come “allenatore” della nazionale italiana di robot calciatori , un altro progetto nato per migliorare la funzionalità delle macchine che, come ben sanno i lettori di Punto Informatico, vanta anche un campionato mondiale . A Punto Informatico Nardi svela i particolari del progetto Rescue.

Punto Informatico: Nardi, di robot impiegati per attività rischiose già ve ne sono diversi in attività nel Mondo. In che modo si distingue il progetto italiano?
Daniele Nardi: Stiamo migliorando quello che chiamiamo Rescue Robot, il robot soccorritore destinato ad affiancare le operazioni di soccorso più complesse. In sostanza noi acquistiamo le basi meccaniche ed i diversi componenti e li arricchiamo di “intelligenza” sviluppando software che regola i sensori e permette di interpretare le informazioni che lo strumento riceve.

PI: Molto più di un congegno gestito a distanza… Come nasce?
DN: L’esperienza italiana in questo campo è molto all’avanguardia, tanto che il Laboratorio di ricerca “Sistemi intelligenti per l’Emergenza e la Difesa Civile” del Dipartimento di Informatica e Sistemistica dell’Università La Sapienza di Roma, ha organizzato la seconda edizione di un seminario internazionale a cui hanno partecipano esperti di varie nazioni.
Sono arrivati 35 studenti da tutte le parti del mondo per cinque giorni di seminario con una rilevante componente pratica. Si è trattato di un corso ad alta specializzazione che prepara alla ricerca: un master pre-ricerca. Gli allievi hanno costruito materialmente i robot e sviluppato il software.

PI: In molti paesi ferve la ricerca di settore, guardare oltre confine anche per i ricercatori italiani è inevitabile? Ed è utile?
DN: Sì, abbiamo diverse collaborazioni, partecipiamo a molti incontri internazionali: la condivisione delle informazioni è necessaria per lo sviluppo. Per esempio a breve parteciperemo ad un incontro che si terrà in Giappone per un progetto quinquennale a cui collaboriamo. E’ anche grazie a questi incontri che possiamo sopravvivere”.

PI: Cioè?
DN: Noi ricercatori viviamo di tanti piccoli finanziamenti, mille rivoli ma sempre troppo pochi. Uno di questi proviene dal Ministero degli affari esteri ed ha “premiato” la nostra cooperazione con il Giappone.

PI: Vuol dire che il Governo o i privati non credono abbastanza in questi progetti di ricerca?
DN: Il fatto è che passiamo più tempo a cercare finanze che a lavorare: siamo più procacciatori pubblicitari che ricercatori e questo non mi permette di pianificare il lavoro e nemmeno di potermi dare una scadenza per l’ultimazione del progetto. Navighiamo a vista.

PI: E’ un problema che Punto Informatico ha già affrontato con altri ricercatori: la questione dei fondi alla Ricerca nel nostro paese è ormai al centro persino dell’agenda politica, difficile sorprendersi dei problemi che incontrate. Quanti siete a lavorare sul progetto?
DN: Oltre me, c’è un altro ricercatore, uno studente che ha il dottorato, alcuni studenti laureandi con competenze specifiche nei diversi settori di interesse così da formare un gruppo omogeneo e funzionale. In tutto saremo poco meno di dieci

PI: Parliamo di Rescue Robot, e del prototipo che avete sviluppato
DN: E’ un piccolo robot su ruote, ancora piuttosto semplice meccanicamente con la capacità di muoversi su terreni piani con sensori laser a bordo che gli permettono una stereovisione, l’individuazione di sorgenti di calore e di suoni (per favorire l’individuazione dei superstiti sepolti dalle macerie, per esempio). Attraverso questi, cerchiamo di catalogare le informazioni in tre punti fondamentali: la costruzione della mappa del luogo che si esplora; l’individuazione delle vittime e la capacità di esplorazione in autonomia nel caso il contatto del robot con l’uomo si dovesse interrompere. Questo perché di solito gli scenari in cui dovrebbe operare la macchina sono spesso insidiosi.

PI: Sul piano tecnico cosa pulsa all’interno di questo… salvatore?
DN: Il robot attualmente utilizzato all’interno del laboratorio SIED è un Pioneer 3-AT della ActivMedia Robotica ; due PC contengono il software necessario al controllo del robot, dei sensori e alla sua autonomia. I sensori attualmente installati sul robot sono quattro:
– un Laser Range Finder SICK utilizzato per la costruzione della mappa dell’ambiente esplorato;
– un ring di sonar, che permette di inserire nella mappa gli ostacoli non individuati dal LRF (ad esempio: vetri);
– una stereocamera montata su un dispositivo di pan-tilt, utilizzata per l’individuazione autonoma delle vittime;
– un sensore puntiforme a distanza di calore, utilizzato insieme alla stereocamera per l’individuazione delle vittime.
Abbiamo sviluppato un ambiente in C++ che ci permette di elaborare le diverse informazioni.

PI: Rescue Robot è quindi già in grado di esplorare l’ambiente, di muoversi compiendo anche manovre complesse e di costruire una mappa metrica densa, utilizzabile successivamente da un operatore di soccorso umano ed identificare autonomamente eventuali esseri umani. A quando allora la fine della sperimentazione?
DN: Questo mi è impossibile dirlo per la ragione dei finanziamenti a cui accennavo.

Le prossime tappe del progetto, spiega il ricercatore italiano, sono i primi testing e le sperimentazioni vere e proprie: dai risultati si vedranno molte cose e non resta che sperare che siano tali da attrarre ulteriori investimenti. Le applicazioni di Rescue Robot potenzialmente sono decine, e tutte di vitale – è proprio il caso di dirlo – importanza. Ma occorre perfezionarlo e continuare a sviluppare il software che gli dona “intelligenza”. E per farlo servono fondi…

Alessandro Biancardi

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Pubblicato il 10 nov 2005
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