Web – Nella stessa settimana dagli USA giungono due notizie “legali” molto importanti. La prima è quella di cui tutti hanno scritto, sul mancato raggiungimento di un accordo fra il dipartimento di giustizia e Microsoft nella nota vicenda antitrust, la seconda assai meno publicizzata riguarda la decisione (1) di una Corte americana su di un quesito che fino ad oggi non ha avuto risposte certe: che cosa rappresentano i codici sorgente di un computer?
Tre giudici statunitensi, per la verità non completamente d’accordo fra loro, hanno ritenuto che i codici di programmazione siano in generale “un mezzo di espressione per lo scambio di informazioni e idee sulla programmazione dei computer” e come tali vadano tutelati dal primo emendamento della Costituzione Americana. L’importanza di questa sentenza non risiede tanto nel fatto che, con ogni probabilità, le restrizioni imposte dall’amministrazione Clinton alla distribuzione dei software di criptazione potranno divenire incostituzionali, ma per tutta una serie di conseguenze intellettuali ed economiche che questa interpretazione del concetto stesso di software porta con sé.
Scrivere codici è dunque una forma di libera espressione e non può essere in alcun modo limitata. Benissimo. Ma che cosa significa concretamente questo? La sentenza sembra aprire più interrogativi che indicare future strade da seguire.
La prima domanda che è venuta in mente a molti è: anche un virus sarà protetto dal primo emendamento? Anche un programma di cracking? E se così non fosse, come sarà possibile fare le opportune distinzioni?
Certo l’interpretazione del giudici americani è per molti versi ineccepibile e fa onore ad un apparato che non ha mai smesso di dimostrare in concreto la propria autonomia dal potere politico: in pratica si riconosce che, come sosteneva il governo americano nella causa intentata nel 1997 da un professore universitario di Cleveland, la programmazione di software ha in sé contemporaneamente caratteristiche di espressione e caratteristiche funzionali ma che le prime debbono essere considerate preminenti. In parole povere è vero che i programmi vengono scritti perché “facciano un lavoro”, ma scriverli è una attività intellettuale che ha un valore culturale a sé stante che non può essere limitato dall’utilizzo che se ne farà in seguito.
Per la seconda volta in pochi anni una corte americana blocca una vera e propria campagna di occupazione di Internet da parte dei soggetti più vari: dall’amministrazione Clinton che ha in tutte le maniere tentato di imbavagliare la comunità dei programmatori con un inefficace veto all’esportazione di software di criptazione, alla Associazione dei Produttori Cinematografici (MPAA) che sta da qualche mese tentando di far considerare il reverse-enginering come una attività vietata dalla legge nella disputa che la oppone ai diffusori del software DeCSS(2) per leggere i DVD, alla Mattel che attraverso la sua società di software Cyber Patrol sta stupidamente cercando di censurare un numero sempre crescente di siti web nei quali viene reso disponibile un codice che aggira le funzionalità del loro (inefficace) programma per filtrare la visione di siti porno.
Molte organizzazioni libertarie americane stanno in questi giorni considerando che, sulla base di questa sentenza, gran parte dei contenziosi in atto come quelli appena citati dovrebbero risolversi a favore dei programmatori, ai quali andrebbe riconosciuta una sorta di extraterritorialità in nome della libertà di espressione.
Di sicuro c’è che negli ultimi tempi l’aggressività e il numero di dispute legali attorno alla spinosa questione del copyright sono lievitate. E quasi sempre l’arroganza del più forte si è fatta sentire fino a causare situazioni paradossali come quella del giovane norvegese autore di DeCCS che si è trovato i gendarmi a perquisirgli la casa su “mandato” degli industriali hollywoodiani della pellicola. Quando si dice la globalizzazione!
L’applicazione estensiva del concetto esposto dai giudici americani sembra assai difficile, tuttavia un paio di cose ne possono discendere abbastanza chiaramente.
La prima è che non tutto è concedibile in nome del profitto, nemmeno alle grandi major cinematografiche, neppure alle grandi multinazionali dell’intrattenimento o alla stessa amministrazione Clinton. E questa è una lezione che gli USA impartiscono a tutti, sia nella vicenda Microsoft come in molte altre come questa. La seconda è che se si decide di distribuire un programma fatto male forse sarà il caso di assumersene le responsabilità senza scatenare troppi avvocati, uffici stampa e poliziotti dall’altra parte del globo. Un software le cui difese vengono superate è prima di ogni altra cosa una dichiarazione di fallimento di chi lo ha distribuito, e il comportamento di molti grandi su Internet oggi assomiglia tanto a quello del bambino che va a protestare piangendo dalla mamma perché l’amichetto corre più veloce.
Dire, come hanno fatto i giudici della Corte, che programmare è come dipingere o come scrivere una poesia, è una affermazione di principio bellissima e significa in definitiva anche questo: chi di voi appenderebbe in casa un brutto quadro?