USA, dal trademark al dominio

USA, dal trademark al dominio

Perché il nome commerciale di un'azienda deve garantire a questa il possesso di un nome di dominio corrispondente? Al di là della legge, un problema culturale centrale
Perché il nome commerciale di un'azienda deve garantire a questa il possesso di un nome di dominio corrispondente? Al di là della legge, un problema culturale centrale


Roma – Chi possiede un trademark, cioè un marchio registrato e protetto dalle leggi internazionali, può possedere automaticamente un dominio che utilizza quella stessa denominazione? Questa domanda non pone solo una questione di diritto formale, pone anche e soprattutto un problema culturale. Quindi, qual è la relazione tra trademark e dominio internet?

Negli Stati Uniti, dove spesso ciò che accade per le cose della rete e non solo “fa tendenza” al punto da diventare elemento cromosomico dell’Europa, la questione l’hanno già risolta. Con la legge sul cybersquatting il Congresso ha apparentemente messo una pietra sopra la questione. Da una parte, infatti, chi dispone di un trademark dispone anche di un diritto sui domini che utilizzano la stessa denominazione; dall’altra non è concesso acquistare domini che richiamano trademark per poi venderli, perché è considerata speculazione abusiva.

Da quando questa legge è passata, sono emersi alcuni casi clamorosi che mettono in luce una certa distanza tra ciò che è scritto nei diari del Congresso e ciò che accade nella realtà, magari in tribunale, come conseguenza forse inattesa di quei diari.

Si guardi al caso del dominio worldwrestlingfederation.com che l’organizzazione dei Wrestlers americani ha voluto per sé anche se chi lo aveva acquistato, molto tempo fa, ne aveva fatto una “fermata obbligata” per gli appassionati del genere. Ancora più clamore ha suscitato negli ultimi mesi la questione di eToys.com che ha tentato, riuscendovi per un certo periodo, di impedire le attività online di etoy.com , un gruppo culturale internazionale per nulla dedito alla vendita di giocattoli ma “lesivo dell’immagine” del colosso di quel settore. E al giudice che firmò la sospensione temporanea del dominio etoy.com per le pressioni di eToys parve tutto normale, anche se etoy.com era nato due anni prima della nascita dell’azienda dei giocattoli.

Questi due casi aiutano a mettere in luce importanti difetti della legislazione americana che crea una corrispondenza sempre più stretta tra dominio e trademark. Anche quando il nome di dominio, come nel caso di etoy.com, non corrisponda esattamente al trademark dell’azienda (eToys.com).

Ciò che la legge sul cybersquatting realizza, è porre il business al centro della rete: un trademark è legato nel mondo fisico ad una attività economica. Viene posto in secondo piano il dato della comunicazione non commerciale a cui viene impedito l’uso libero di determinate denominazioni.

Senza trarre giudizi su questo, ognuno ne faccia di propri, è quantomeno necessario dirlo, affermare cioè che lo sviluppo della libertà in rete è condizionato da una presenza sempre più massiccia non solo delle aziende ma del complesso degli interessi macroeconomici innescati da quella che negli States definiscono, e a ragione, “new economy”.

Siamo cioè di fronte ad una “rivoluzione di pensiero” per quanto riguarda internet, e non solo. Una rivoluzione i cui effetti possono certamente preoccupare. Ma preoccupa di più che non si prenda atto di quanto sta accadendo. Se c’è un pericolo per la rete, dunque, è che passi sotto traccia qualcosa che potrebbe, perché no?, essere promodromico dell’imposizione di una “rete commerciale” sulla “forma” della rete originale.

Gilberto Mondi

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Pubblicato il
4 feb 2000
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