È una sentenza che dovrebbero leggere tutti coloro che si occupano di internet e diritto quella con la quale il Giudice Louis Stanton, ha deciso la causa che vedeva contrapposte Viacom, colosso dell’intrattenimento mondiale e Google, quale proprietario di YouTube. Prima ancora che il merito della decisione, a renderne consigliabile la lettura è il rigore logico del ragionamento seguito dal giudice e della struttura del documento.
Sono aspetti – occorre ammetterlo, nella speranza di far tesoro delle esperienze altrui – davanti ai quali le ultime decisioni che abbiamo letto in Italia su argomenti analoghi appaiono poco più che confuse macchie di inchiostro disordinate, disorganizzate, poco riflettute e consapevoli.
Lo dico e scrivo, naturalmente, con rammarico.
Una Sentenza come quella del Giudice Stanton può convincere o non convincere, piacere o non piacere a seconda dei punti di vista, nel merito e nei contenuti, ma apre – come sta accadendo ed accadrà nei prossimi mesi negli USA – un dibattito serio, stimolante e costruttivo tra operatori e addetti ai lavori.
Nulla di tutto ciò è accaduto né avrebbe potuto accadere nel nostro Paese dove, sfortunatamente, questioni di importanza almeno analoga a quella oggetto della controversia Viacom-Google sono state definite con Sentenze modeste, povere di contenuti, assai poco rigorose sotto il profilo logico-giuridico e ancora meno sotto quello del necessario approfondimento delle dinamiche sottese alla pubblicazione e circolazione dei contenuti online.
Google-Vividown , il caso The Pirate Bay , Google-Mediaset (questione speculare a quella sottesa al caso Google-Viacom) o, piuttosto, Telecom-FAPAV , sono tutte questioni che ben avrebbero potuto essere decise con Sentenze puntuali e rigorose come quella appena scritta a New York.
Egualmente stimolante è l’analisi che il Giudice ha potuto compiere sugli atti preparatori della disciplina (il DMCA ) da applicare per definire la questione. Nel nostro Paese, se anche in una qualsiasi delle vicende appena ricordate un Giudice avesse avvertito l’esigenza di interrogarsi sull’effettiva portata e sulla ratio del decreto legislativo 70/2003 cui è affidata la disciplina della responsabilità degli intermediari della comunicazione, si sarebbe imbattuto in uno sconfortante deserto documentale ed avrebbe dovuto, suo malgrado, prendere atto della totale assenza di qualsivoglia genere di documento preparatorio idoneo a rappresentare un ausilio all’interpretazione della norma.
I nostri decreti legislativi ai quali è, ormai, affidata in via pressoché esclusiva la disciplina della materia (IT e proprietà intellettuale), infatti, escono tristemente da Palazzo Chigi come per effetto di invisibili alchimie delle quali non rimane alcuna traccia. Di modo che, da noi, le leggi esistono perché esistono ma non chiedetevi mai perché .
Ed ora veniamo al merito della decisione.
Uno dei passaggi più interessanti della Sentenza è, probabilmente, rappresentato dal riassunto delle ragioni per le quali, secondo Viacom, Google avrebbe dovuto rispondere delle violazioni del diritto d’autore poste in essere attraverso la pubblicazione dei video caricati dagli utenti:
1. Perché ha conoscenza del carattere illecito di decine di migliaia di video ospitati sulla propria piattaforma;
2. Perché guadagna dalla pubblicazione dei video, ivi inclusi quelli sui quali insistono diritti d’autore della stessa Viacom;
3. Perché non si limita a prestare servizi tecnici propri di un intermediario della comunicazione.
Si tratta di tutte le ragioni sulla base delle quali, negli ultimi mesi, nel nostro Paese, sono stati “portati alla sbarra” gli intermediari della comunicazione: The Pirate Bay, Google e, da ultima, Telecom. Nessuna di tali ragioni, tuttavia, negli Stati Uniti è stata ritenuta sufficiente a privare Google dello status di intermediario e, dunque, dello speciale regime di “responsabilità limitata” che caratterizza il “porto sicuro” presso il quale il DMCA garantisce attracco agli intermediari della comunicazione.
Come è noto, non è invece andata così in Italia, dove la circostanza che Google guadagni dalla diffusione dei video – all’epoca dei fatti a mezzo Google Video e oggi YouTube – ha pressoché monopolizzato l’attenzione dell’accusa nel giudizio Vividown, dove la circostanza che Google non si limiti a ospitare contenuti audiovisivi ma presti anche servizi finalizzati alla loro organizzazione ha pesato in maniera importante nella decisione della fase cautela del caso Google c. Mediaset e, infine, dove la conoscenza del carattere complessivamente illecito dei contenuti indicizzati è costata la rocambolesca chiusura ai naviganti italiani della Baia svedese.
Il Giudice statunitense, al contrario, non si è mostrato affatto turbato dalla circostanza che Google tragga profitto dall’insieme dei video pubblicati su YouTube attraverso la pubblicità, non ha ritenuto rilevante la circostanza che BigG non si limiti a prestare un servizio “tecnico” finalizzato all’hosting e, soprattutto, ha ritenuto che la generica conoscenza che i propri servizi siano utilizzati anche per scopi illeciti non faccia nascere in capo a Google alcuno specifico obbligo di attivarsi per ricercare e/o rimuovere quelli illeciti tra i contenuti complessivamente veicolati e, men che meno, un generale obbligo di sorveglianza.
Regole diverse, si dirà: la nostra disciplina sulla responsabilità degli intermediari non è eguale al DMCA applicato dal giudice newyorkese per risolvere la controversia YouTube c. Viacom.
È una constatazione inconfutabile.
Ad un tempo, tuttavia, non può non riconoscersi che le due discipline hanno ratio (ovvero finalità) largamente coincidenti, che non ha alcun senso in un contesto di mercato e società globalizzato affidare identiche condotte a discipline diverse e, soprattutto, che la distanza tra l’attuale disciplina italiana ed europea e quella americana è costituita da qualche parola o, meglio ancora, da qualche ambiguità di troppo nella nostra disciplina.
Occorre, dunque, fare uno sforzo di chiarezza e intervenire – poco importa se a livello europeo o nazionale – sulle norme, per dissipare ogni dubbio circa il fatto che perché l’intermediario della comunicazione possa essere chiamato a rispondere è necessario che questi abbia la consapevolezza circa l’effettiva illiceità (o perché evidente o perché accertata attraverso un provvedimento della competente Autorità) di un determinato contenuto e non già semplicemente circa possibili (o probabili che siano) generici utilizzi illeciti dei propri servizi. E soprattutto sull’esigenza, ai fini della configurabilità della responsabilità dell’intermediario, che i rimedi tecnici e le policy da questi approntati per consentire al titolare dei diritti che si assumono lesi di ottenere autonomamente la rimozione del contenuto siano risultati – sebbene utilizzati – inidonei al raggiungimento dello scopo.
Basterebbero poche parole nel nostro decreto legislativo 70/2003, tutte peraltro perfettamente compatibili con la disciplina europea della materia, per sperare di poter leggere presto, anche in Italiano, una decisione come quella pronunciata l’altro giorno dal Giudice Stanton.
Non credo ci sia nulla di peggio che rassegnarsi a che, in Italia, meglio non si possa fare ed iniziare ad augurarsi che la prossima decisione non sia peggiore della precedente senza, tuttavia, cullare almeno la speranza che possa essere migliore.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it