Cassandra in termini moderni era turca, non italiana. Per questo è curioso che nell’italico paese solo Cassandra, che potrebbe per la sua nazionalità ben fregarsene, sia affetta da una curiosa sindrome. Mentre normalmente l’esposizione alle parole di moda di provenienza politica genera sonno o un’utile sordità selettiva, quella alla locuzione evergreen “Agenda Digitale” (ed i lettori mi perdonino le maiuscole!) genera invece una forma di eritema pruriginoso ai polpastrelli.
Nelle forme più forti come quella di oggi, spinge a grattarli sfregandoli contro i tasti di una tastiera, e siccome ha anche l’effetto di risvegliare qualche brandello di coscienza civica ed acuire una ben presente “vis polemica”, sarete esposti a quando segue. Lettore avvertito…
Di cosa stiamo parlando?
Stiamo parlando della famosa ” Agenda Digitale ” italiana, prima buzzword (ooops… “parola di moda”) e poi dal 2012 organizzazione governativa figlia legittima dell’Agenda Digitale Europea , a sua volta iniziativa digital-tuttologa comunitaria partita con una certa serietà a Bruxelles nel 2010.
L’Agenda Digitale è un concerto dove tra l’altro suonano ben 5 ministeri… ma cediamo loro la parola. Recita il sito istituzionale:
“L’Agenda Digitale Italiana (ADI) è stata istituita il primo marzo 2012 con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione; il Ministro per la coesione territoriale; il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Ministro dell’economia e delle finanze. Il 4 ottobre 2012 è stato apporovato dal Consiglio dei Ministri il provvedimento Crescita 2.0 in cui sono previste le misure per l’applicazione concreta dell’ADI.Da quello che il sito istituzionale dell’ADI mostra (a parte che l’uso del correttore ortografico è considerato opzionale), i fatti sono per ora limitati a nomine, la creazione di una “Cabina di Regia” e la definizione di “Azioni” suddivise in “Pillars” (che – direbbe il commissario Montalbano – verrebbe a dire “Pilastri”).
I principali interventi sono previsti nei settori: identità digitale, PA digitale/Open data, istruzione digitale, sanità digitale, divario digitale, pagamenti elettronici e giustizia digitale.
L’Agenda Digitale definisce, infatti, questi principali ostacoli che minano gli sforzi compiuti per sfruttare le ICT e indica la strategia unitaria a livello europeo volta al loro superamento individuando le aree d’azione che sono chiamati ad adottare gli Stati membri: 101 singole azioni suddivise in 7 pillars.
L’Italia però era fanalino di coda nelle classifiche europee, poiché i vincoli di bilancio hanno bloccato gli investimenti necessari per una rapida migrazione alla network society: un ritardo che doveva essere rapidamente colmato per non essere esclusi dalla competizione globale che oggi si gioca in Rete.”
Le iniziative europee sono talvolta fumose e dispersive, talaltra assai efficaci, ma sempre lente e lunghe, quindi l’Agenda Digitale Europea non merita ancora giudizi.
Al contrario la fiducia che il braccio italiano ispira in Cassandra è infinitesimale “from the beginning”, e questo non solo perché la sua nascita non è particolarmente diversa da quella di tanti enti ed iniziative governative spesso inutili.
No, la sfiducia nasce dall’interpretazione, assai semplice ed inequivoca (a rischio di essere definita “qualunquista”) di una lunga serie di fatti storici italiani di varie tipologie, nei quali per motivi temporali l’ADI non può entrarci nulla.
Cominciamo dal famigerato famoso ” Progetto Socrate che negli anni 1995-1997 si proponeva di portare la fibra ottica nelle case di tutti gli abitanti in 19 grandi città italiane. In quel tempo Telecom era monopolista, il progetto era stimato nell’equivalente di 5,5 miliardi di euro (dicasi miliardi ): prima dell’abbandono 2,5 miliardi (dicasi miliardi ) sono stati effettivamente spesi. Soldi che, in buona sostanza, attraverso alchimie finanziarie e societarie, venivano dai soldi delle bollette di un monopolio per giunta sovvenzionato dallo Stato, e quindi dalle tasche degli italiani.
Unico risultato, milioni di tubi corrugati blu, neri o arancioni che emergono dal suolo vicino alle porte, talvolta chiusi da un tappo nero, talaltra aperti, ma comunque inconsolabilmente vuoti di fibra (e probabilmente non di topi).
Menomale che sono turca, sennò pensando che le pensioni degli italiani sono state mandate a ramengo per recuperare 3,5 miliardi mi arrabbierei…
Continuiamo. La firma digitale veniva istituita in Italia (primo paese al mondo) il 15/3/1997 con la legge n. 59, ed immediatamente dotata di un ottimo regolamento attuativo e di disciplinari tecnici. Dopo un paio d’anni i dispositivi di firma potevano essere acquistati anche dai privati cittadini. Nei successivi 10 anni la firma digitale è stata riformata, moltiplicata, differita, frammentata. I dispositivi di firma “normali” sono stati affiancati da Carta Nazionale dei Servizi, Carta di Identità Elettronica, Carte Regionali dei Servizi, Tessere Sanitarie ed altre ancora, senza che nessuno cercasse di mettere ordine nella confusione mentale che tutto questo provocava nella testa dei cittadini.
A parte il nutrito drappello degli amministratori delegati di tutte le società italiane, che sono stati obbligati da subito a richiedere oltre un milione di dispositivi di firma altrimenti non avrebbero potuto presentare i bilanci (e se ne sono subito disinteressati riempiendone i cassetti dei commercialisti), praticamente nessun cittadino, avvocati a parte, ha acquistato un dispositivo di firma, e le pubbliche amministrazioni non permettono in pratica di usare la firma digitale, visto che non pubblicano o pubblicano controvoglia le modalità per farlo.
In compenso la maggior parte dei cittadini italiani possiede e tiene nel portafoglio uno o più dispositivi di firma senza saperlo, in primis la tessera sanitaria in formato Smartcard.
E ancora. La C.I.E. Carta di Identità Elettronica è un’altra storia in cui lo Stato Italiano è arrivato quasi per primo, ed il cui regolamento attuativo, in origine ben fatto e rispettoso della privacy di cui Cassandra si è occupata ripetutamente, qui e qui , si è tradotto in una sperimentazione dai costi astronomici, in cui la C.I.E. veniva proposta ai cittadini a costi doppi di quella ordinaria, era rilasciata con contagocce (5, dicasi 5 carte al giorno all’anagrafe centrale di un noto capoluogo di una regione che comincia per “T”) poi guasti, liste d’attesa, e rinvii per anni, fino alla notizia che la “sperimentazione” era finita e la C.I.E. ufficialmente defunta in attesa di “quella nuova”.
L’unico fatto certo è che tutti i cittadini che hanno ottenuto la C.I.E. sono stati obbligati a depositare l’impronta digitale in barba alla legge stessa, e che queste impronte sono state raccolte in un mai precisato database. Ma tanto dar via anche la propria biometria è ormai sport praticato, visto che la privacy informativa e di relazione è da tempo di proprietà dei gestori di comunità sociali.
E poi la Posta Elettronica Certificata, altro record italiano , svilita dalla la CEC-PAC , un clone di cui nessuno sentiva il bisogno, teoricamente obbligatoria da anni per le pubbliche amministrazioni e gli iscritti agli ordini professionali.
Purtroppo non tanto “obbligatoria”, visto che l’Agenzia delle Entrate del solito capoluogo ancora nel 2010 non solo era priva di indirizzo di PEC, ma nemmeno rispondeva alle mail normali pur se mandate all’indirizzo di posta istituzionale pubblicato sul sito. L’altro giorno ho avuto bisogno di porre una quesito via mail all’equivalente dell’Agenzia delle Entrate in francese: mi hanno risposto in 1 ora e 50 minuti.
E che dire della santa pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi, passata da obbligo di legge a reato nel giro di 24 ore grazie alla solita pronta e fuori luogo azione del Garante? Pronta quando le proteste arrivano dai canali giusti, fuori luogo perché visto che solo i totali venivano pubblicati, non poteva servire ai criminali ma solo a Cassandra per sapere se il proprietario del palazzo di fronte paga o no le tasse.
L’Italia, se non lo sapete, è il paese in cui i dati pubblici sono negabili dalla pubblica amministrazione che non riconosca un “giustificato motivo” al richiedente… secondo ragione non si chiamano dati pubblici se sono interrati in uno scantinato accessibile solo il martedì ed il giovedì dalle 10 alle 12.
E poi….
…Basta, dopo milleduecento parole, appena sufficienti ad accennare alcuni dei disastri storici della telematica pubblica italiana, ma che spiegano chiaramente perché vivere nella società dell’informazione in Italia somigli alla sopravvivenza in una città telematica piena di relitti e di quartieri abbandonati, Cassandra vorrebbe dire qualcosa a chi opererà con incarichi decisionali e spenderà fondi nell’Agenda Digitale.
Signori, avete di fronte un lavoro difficilissimo, ed obiettivi così grandi da risultare poco credibili. Vi siete appiccicati addosso, o vi hanno appiccicato, temi epocali (e qualche volta massimalisti) come Infrastrutture e Sicurezza, Città Intelligenti, Governo Telematico, Competenze Digitali, Ricerca ed Innovazione, Commercio Elettronico. I vostri predecessori, su obiettivi enormemente più circoscritti, hanno fallito miseramente, talvolta per colpa loro, talaltra per il contrasto (ma forse sarebbe meglio parlare di sabotaggio) di chi inevitabilmente si oppone all’innovazione per i propri interessi. I soldi sono pochissimi, e sono tolti da tasche ormai vuote. Davvero vi proponete di realizzare quanto scrivete in Homepage?
I cittadini vi guardano ed aspettano (molti con poca fiducia) qualche risultato. Cominciate a rispondergli dal vostro sito istituzionale, togliete le fanfare e le dichiarazioni di intenti, e cominciate a pubblicare notizie, progressi, realizzate un canale non separato da quello istituzionale per raccogliere pareri e notizie.
Date un po’ di speranza a chi vi ha fornito i soldi che spenderete…
Marco Calamari
Lo Slog (Static Blog) di Marco Calamari
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