Dude.it/ Final Reality

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di Aaron Brancotti. Il primo film del "Dinema" - Digital Cinema - incuriosisce talmente gli appassionati da spingere a recensioni addirittura prima della visione
di Aaron Brancotti. Il primo film del "Dinema" - Digital Cinema - incuriosisce talmente gli appassionati da spingere a recensioni addirittura prima della visione


Web – Prima della cura:

Domani sera andrò a vedere Final Fantasy. È una buona occasione per fare una recensione alla Mario Luzzato Fegiz, ovvero senza aver alcuna esperienza soggettiva dell’oggetto da recensire. Vorrei condividere con voi una serie di considerazioni prima di godermi quello che è, a tutti gli effetti, il primo vero esempio di massa di una forma d’arte che difficilmente possiamo ancora chiamare Cinema (poiché dello stesso non ha più limiti e virtù) e che eppure dallo stesso eredita cento anni di cultura e linguaggio. Vogliamo chiamarlo tra di noi Digital Cinema, o in breve “Dinema”, fino a quando non troveremo un nome migliore?

Quello che assolutamente ritengo sia importante stimare non è certo il contenuto del prodotto Final Fantasy, che ho la sensazione sarà più o meno una porcata dal punto di vista narrativo, ma le potenzialità che il Dinema apre in un mondo minato alla base dal solito divario onnipresente nella produzione artistica odierna: da una parte le porcherie multimiliardarie senza un briciolo di inventiva, dall’altra le idee geniali ma squattrinate e quindi sviluppate in maniera necessariamente approssimativa. Quello che davvero dobbiamo considerare è se, quando e come il Dinema avrà la forza tecnologica di trasformarsi in una espressione artistica che adesso non esiste e quanto costerà (soprattutto in termini culturali) questa trasformazione. Grazie al digitale, nel campo dell’audio abbiamo avuto in pochi anni una evoluzione tale per cui oggi con investimenti ridicoli è possibile produrre musica di qualità professionale su un personal computer. Questo non ha fatto di noi tanti piccoli Mozart (anzi!!), ma ci ha dato la possibilità di diventarlo. Ora, siamo alla vigilia della potenziale nascita di tanti piccoli Kubrik?

Non riesco a non tirare un parallelo storico con la disciplina informatica chiamata Intelligenza Artificiale. Da trent’anni a questa parte chi lavora nella AI ritiene di essere a un passo da realizzazioni rivoluzionarie, eppure ogni volta qualcosa di inafferrabile interviene a ristabilire il divario tra l’Uomo e la Macchina. Non a caso le tecnologie AI più degne di nota non sono quelle che cercano di catturare a priori e a livello logico l’Anima Umana (intesa come quella cosa intangibile che alle macchine continua a mancare) come i Sistemi Esperti, ma quelle che cercano di ricostruirla o simularla senza chiedersi cosa sia o dove risieda, come la Fuzzy Logic o le Reti Neurali. Sembra che l’Anima sia un comportamento emergente da miliardi di interazioni che, per quanto ne sappiamo, potrebbero spingersi fino a livello quantistico. Un effetto secondario della complessità, insomma.

D’altra parte il cognitivismo e la Realtà Virtuale ci hanno insegnato molte cose. Il Dinema, per essere davvero utilizzabile, dovrà dimostrare di poter mettere lo spettatore in quello stato chiamato “suspension of disbelieve”, alla base del fenomeno dell’immersione nella VR.

I nostri sensi devono essere ingannati dal mondo sintetico così da forzare il nostro cervello a dimenticarsi che quello che stiamo percependo in realtà non esiste. Orbene, nella VR questo è relativamente facile, poiché la VR è per sua natura interattiva. Siamo molto più disposti a credere che un oggetto cilindrico azzurrognolo e semitrasparente sia un bicchiere se riusciamo a rigirarcelo tra le mani e vedere che si rompe quando cade per terra.

Non c’è bisogno di simulare la rifrazione del vetro o il liquido che si spande sul pavimento in maniera fotorealistica e fisicamente corretta, perché la risposta in tempo reale e l’interazione avanzata forzano il nostro cervello a credere. I want to believe , c’è scritto sul manifesto alle spalle di Fox Molder. Ma per il Dinema è diverso: niente interazione. Si gioca tutto sulla qualità audiovisiva. Quindi via libera a simulazioni dove ogni fotogramma costa al processore miliardi e miliardi di operazioni. Capelli, vestiti, oggetti che si deformano, luci volumetriche, textures multiple, trasparenze e traslucenze, cinematica inversa, equazioni differenziali come se piovesse. Abbastanza da mettere in ginocchio le Macchine.

E ancora non basta: il Dinema, almeno in questa fase, per essere accettato deve rifarsi al linguaggio ereditato dal predecessore; quelli che erano in origine limiti tecnici del Cinema devono essere qui simulati perché ormai fanno parte di un codice ben preciso: il controsole, il motion blur, i flares, i cambi di piano focale usati in un mondo matematico dove tutto potrebbe essere sempre perfettamente a fuoco. Fin qui nulla di difficile, in realtà: è solo questione di potenza di calcolo e quella sappiamo che aumenta esponenzialmente. Oggi i processori chiedono pietà per calcolare Final Fantasy, ma prima o poi quella potenza arriverà sulle nostre scrivanie e potremo produrre in tempi ragionevoli le nostre prime stravaganti opere.

Solo che nel Cinema ci sono anche gli Attori e qui iniziano i veri problemi del Dinema. Già Toy Story era in alcuni punti indistinguibile dalla realtà e Shrek è tecnicamente impressionante e credibile nella sua ovvia inaccettabilità logica, ma simulare anche solo a livello audiovisivo l’Anima dell’Uomo è un altro discorso. C’è chi ci prova da anni, ma io, nonostante un lungo pellegrinaggio nel ciberspazio, l’Anima necessaria a una sospensione della mia diffidenza nei confronti di un umano virtuale ancora non l’ho incontrata. Vedremo se Aki Ross riuscirà a convincermi; in ricordo dei Fratelli Lumière, che alla fine della fiera filmarono un treno, almeno per ora eviterò di chiederle di commuovere il pubblico recitando, come l’indimenticabile Nexus “Ho visto cose”.


Dopo la cura:

Capperi. Capperi. Capperi. È opportuno partire così, con tre rafforzativi lessicali, perché Final Fantasy se lo merita. È Lui, è il primo, è il capostipite. Ci vorrà ancora molto per arrivare all’equivalente dinematografico del Settimo Sigillo, ma è indubbiamente iniziata una nuova era.

Come previsto, il plot narrativo è banale e a tratti delirante (che tipo di armi usano contro i phantoms? Le hanno prese direttamente da Ghostbusters?), ci sono i soliti alieni, gli umani buoni e cattivi, la storia d’ammore, l’Hiroshima onnipresente nei film giapponesi, molti moriranno ma Aki Ross salverà il mondo. Grazie.

Ma i signori di Square ce l’hanno fatta: in più punti ho fatto fatica a convincermi che quello che vedevo era tutto finto e, mi si consenta, ho un certo occhio per queste cose. Aki Ross e le donne in generale (a dire il vero sono due in tutto: Aki e un’altra, una soldatessa cupa e lesbicheggiante come Gianna Nannini) sono riuscite decisamente peggio degli uomini.

Aki è troppo perfetta. I capelli sono resi in maniera eccezionale, ma sono tutti uguali e Aki non si spettina mai, come 007. Hanno tentato di umanizzarla attribuendole un lieve strabismo di venere, ma non è stato abbastanza. Il caos, il rumore, l’asimmetria fanno parte del nostro mondo, e Aki non ne ha, è liscia, non è frattale. Nessuna donna ha quella pelle. È credibile, ma solo nelle scene di azione o nei particolari esasperati come il primo piano dell’occhio, ma non nella sua espressività globale. Ha un’Anima, però di plastica e quaternioni.

Ma gli altri! Il vecchio professore è impressionante; il gruppo di soldati che accompagnano Aki non ha nulla da invidiare a Rambo e compagnia bella e a conti fatti sono sicuro che costa meno. Sembra che basti usare una barba incolta, un capello bianco o una pelle non perfettamente liscia per sconfinare tra Virtuale e Reale. Non a caso il maschio meno credibile è il cattivo, evidentemente neonazista, cognome tedesco, occhi di ghiaccio e faccia bella liscia. Allora perché non hanno messo almeno un neo o una cicatrice, anche piccola, ad Aki?

Comunque sia, ci sono lunghe sequenze di gruppo e vari mezzibusti indistinguibili dal reale, sia al chiuso che in piena luce. Anche questa è una novità: di solito la luce solare era evitata, perché impietosa: molto più facile mascherare imprecisioni digitali in ambienti alla Blade Runner.

La recitazione lascia a desiderare. Paradossalmente, recitano molto meglio Shrek e il Ciuchino che Aki e i suoi amici, ma questo ritengo sia dovuto a un lavoro di aggiustamento tecnologico e al fatto che gli attori comici usati nel motion capture di personaggi caricaturali sono intrinsecamente più espressivi, più carichi nella loro mimica. Forse un giorno scopriremo che per fare un De Niro virtuale ci vuole un Jerry Lewis reale moltiplicato per 0.2; nell’attesa, ripeto, questi attori virtuali non sono poi tanto peggio di molti attori veri (vogliamo parlare di Lambert, del già citato Stallone o delle infinite fighe di legno che ammorbano il mondo del cinema? Parliamone).

In definitiva: Final Fantasy, narrativamente parlando, è una porcheria, ma anche se non siete dei fanatici della tecnologia o della fantascienza vale la pena andarlo a vedere. È l’alba di una nuova forma di comunicazione. Così, quando fra non molto vedrete alla televisione il Papa in skateboard impegnato in alcuni difficili trick insieme a Berlusconi e Che Guevara, sarete in grado di dubitare dei vostri occhi e delle vostre orecchie.

Aaron Brancotti
Dude, giornale per caso

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Pubblicato il
4 set 2001
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