Elezioni e Digitale/ Le interviste di PI

Elezioni e Digitale/ Le interviste di PI

Nuova puntata delle interviste sui temi digitali ad esponenti di entrambi gli schieramenti in lizza per le elezioni dei prossimi giorni. Questa volta Punto Informatico intervista la Margherita, partito schierato con l'Unione
Nuova puntata delle interviste sui temi digitali ad esponenti di entrambi gli schieramenti in lizza per le elezioni dei prossimi giorni. Questa volta Punto Informatico intervista la Margherita, partito schierato con l'Unione

Roma – Le elezioni politiche si avvicinano ed oggi presentiamo, come seconda puntata delle interviste di Punto Informatico ai politici e ai partiti coinvolti nella competizione elettorale, due interviste realizzate con l’Unione e in particolare con la Margherita . La prima è con Linda Lanzillotta , responsabile Innovazione e Sviluppo del partito e la seconda con Paolo Zocchi , presidente dell’Osservatorio nazionale ICT della Margherita.

Punto Informatico: I temi caldi sul tappeto dell’Italia tecnologica sono tanti, dal digital divide alla necessità delle imprese di adattarsi e sfruttare le nuove tecnologie: come intendete agire, che tipo di investimenti si possono mettere in campo, su quali fronti?
Linda Lanzillotta: Con una duplice azione, sul sistema pubblico e su quello privato. La premessa è che tutta la politica economica deve essere finalizzata al raggiungimento degli obiettivi di Lisbona in termini di occupazione, ripresa economica e sviluppo tecnologico: dunque, più risorse per la ricerca e l’istruzione, ma anche una fortissima selettività della domanda pubblica e una modulazione della tassazione che incentivino la diffusione dell’ICT ? settore chiave dello sviluppo, che può dare all’intera economia italiana un balzo in avanti in termini di produttività e competitività.

All’interno di questa cornice generale, ci sono poi due grandi capitoli: quello della pubblica amministrazione che può e deve convertirsi all’e-government accelerando i processi che in questi anni sono stati sviluppati in modo estemporaneo al di fuori di una visione generale e senza una regia; e quello delle imprese private, che devono tornare a investire e cominciare a innovare, sostenute da un quadro di incentivi fiscali e finanziari mirati e da un sistema del credito più aperto e competitivo, il solo che può dare alle imprese che rischiano la fiducia che meritano.

PI: E questo risolverà il problema del digital divide italiano?
LL: C’è un problema di infrastrutture e un problema di costi. Bisogna fare in modo che la banda larga copra tutto il territorio nazionale e che abbia costi accessibili per tutti gli utenti, a partire dai giovani. Per realizzare il primo obiettivo ? estendere la copertura della banda larga ? pensiamo di lanciare dei Piani regionali per le infrastrutture di telecomunicazione, di creare il relativo catasto, e di avviare sulla base di questi piani gli interventi sul territorio.

PI: C’è chi dice che il problema broad band, ad esempio, sarebbe superabile agendo su Telecom Italia, che oggi gestisce gran parte delle infrastrutture TLC nazionali…
LL: L’accesso alle infrastrutture pubbliche da parte dei Telco e degli Isp va consentito e gestito, e va promosso l’uso di tutte le infrastrutture finanziate con fondi pubblici per estendere le infrastrutture per la banda larga.
Proprietà e gestione della rete andrebbero meglio distinte, e garantita la concorrenza tra i gestori: solo in questo modo potremo evitare la formazione di oligopoli e avere una riduzione dei prezzi che attualmente in Italia sono ancora troppo alti. Anche se in questo settore si è andati avanti più che in altri, come ha recentemente riconosciuto anche l’Unione Europea. Ma oltre alla concorrenza tra gli operatori, una politica dei prezzi mirata può consistere in speciali forme di aiuti per l’accesso alla banda larga da parte degli studenti.

PI: Secondo tutti gli indicatori c’è anche un problema culturale di approccio alle tecnologie, sia all’interno della Pubblica Amministrazione che presso molte fasce sociali, ed è in fondo un altra forma di divario digitale…
LL: I “ferri” ? cioè i computer ? non bastano. Bisogna garantire la diffusione delle conoscenze e l’accessibilità delle reti. E soprattutto diffondere i loro vantaggi: nel momento in cui si capirà che la prenotazione di una visita medica, l’accesso a un’informazione ospedaliera o la richiesta di un certificato si possono fare comodamente da casa, la diffusione delle tecnologie digitali sarà quasi spontanea.

PI: Fin qui non è stato così
LL: Se invece la pubblica amministrazione ne fa un ulteriore momento di attrito nei suoi rapporti con il cittadino ? basti pensare alla confusione e ai ritardi che hanno accompagnato la diffusione della Carta d’identità elettronica ? è ben difficile che questi guardi con fiducia ai nuovi sistemi.
Discorso diverso per i giovani, che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno barriere di conoscenza, ma possono trovarsi di fronte a ostacoli fisici o economici: e qui ritorna la proposta di aiuti economici agli studenti per l’accesso alla banda larga.

PI: Innovare, trasformare il rapporto con la PA, potrebbe risultare molto difficile in quelle regioni dove l’infrastruttura digitale e i servizi scarseggiano. Come procederete?
LL: Il problema infrastrutturale ? che è generale per il Mezzogiorno, dalle ferrovie agli acquedotti ? si pone in modo anche più urgente per il digital divide, anche se va precisato che il Mezzogiorno non è più una regione indistinta in cui tutti i posti sono uguali. Proprio nel Mezzogiorno, a Catania, abbiamo una delle poche realtà avanzate e competitive del settore, la St Microelectronics.
Positivo è il fatto che per le infrastrutture “leggere” dell’IT l’avvio di programmi nuovi, l’incentivo all’uso delle reti pubbliche – tutte le misure di cui ho già detto prima – una politica selettiva di incentivi agli operatori privati possono rendere possibile la chiusura del “divario” in pochi anni. PI: Ci sono imprese del settore tecnologico che lamentano una politica debole e secondo il recente rapporto Aitech-Assinform l’IT si è fermato: che programmi avete in questo settore?
LL: Come politica generale, siamo contro gli incentivi a pioggia ? stile Tremonti-bis ? e a favore di incentivi mirati al reale sviluppo delle imprese. Che vanno aiutate a sfruttare tutte le opportunità offerte dall’IT, e incentivate ad aumentare la propria spesa in IT e in ricerca, attualmente bassissima.

PI: C’è anche un problema di accesso al credito per l’innovazione, o no?
LL: E’ il primo problema, soprattutto per le piccole e medie imprese. Le banche sono assai poco propense a prendersi questi rischi, mentre i mercati finanziari sono poco sviluppati, e il risultato è che a volte gli imprenditori vorrebbero innovare ma non ne hanno i mezzi: qui il settore pubblico può intervenire promuovendo fondi di garanzia e soprattutto lo sviluppo del venture capital, che in altri paesi ha dato l’impulso decisivo all’innovazione. Anche gli incentivi fiscali ? rimodulando l’imposta sul reddito d’impresa e l’Irap in funzione degli investimenti, delle assunzioni di personale specializzato, delle spese in R & S ? possono fare molto.
E una politica della domanda pubblica sempre più orientata all’IT, che metta però in reale concorrenza tra loro i “fornitori”, può contribuire in modo decisivo ad allargare il mercato.

PI: In Italia si investe solo l’1 per cento del PIL in ricerca. Cosa pensate di fare in proposito?
LL: La R & S è non solo bassissima rispetto al Pil, ma addirittura in riduzione: i dati dell’Istat dicono infatti che nel 2003 la spesa di imprese, amministrazioni pubbliche e istituzioni private si è ridotta dell’1,7% in termini reali. Vale a dire, siamo all’emergenza.
Un’emergenza che ha due facce: la ricerca pubblica, che ha visto tagliare i finanziamenti alle università, commissariare gli enti, deprimere e spingere all’estero i ricercatori; e quella privata, ai livelli più bassi d’Europa. Attualmente la ricerca del settore privato copre il 47% del totale, laddove nei principali paesi europei supera il 60%.

PI: Come spingere i privati ad investire di più in questo ambito?
LL: Alle imprese private non possiamo “imporre” di spendere in R & S: possiamo però dare incentivi fiscali, detassare queste spese, dare agevolazioni contributive per l’assunzione dei ricercatori, introdurre un quadro normativo per un nuovo rapporto con le università, che sia premiale per le imprese che finanziano l’università dalla quale esce una nuova scoperta, un’innovazione di processo, un brevetto.

PI: E sul fronte della ricerca pubblica?
LL: Il primo passo è il raddoppio degli stanziamenti. Va compiuto però insieme alla revisione dei criteri per la loro distribuzione: criteri che devono premiare il merito e la qualità della ricerca, non essere commisurati a standard quantitativi e tutto sommato burocratici.

PI: Una delle spinte propulsive che arriva dal mondo del software italiano riguarda l’open source, al centro anche di infinite iniziative perché la Pubblica Amministrazione lo adotti senza esitazioni. Che ne pensate?
LL: L’open source deve essere utilizzato dalle amministrazioni pubbliche come una opportunità in più, uno strumento per aumentare la concorrenza e agevolare la creatività stimolando in particolare le imprese italiane nella creazione di nuove soluzioni per le nostre amministrazioni pubbliche.
Ma non deve divenire a sua volta uno strumento da utilizzare in modo dirigistico.

PI: Che intende?
LL: Tutta la materia del software, dall’open source al riuso, sarà affrontata con politiche che scaturiscano da un confronto vero e concreto con le imprese e con le amministrazioni.

PI: Ultima domanda, una domanda d’obbligo: c’è speranza di una politica più avveduta sul peer-to-peer e il diritto d’autore nell’era digitale?
LL: Il nuovo diritto d’autore è una delle grandi sfide della rete. Dovremo muoverci in un quadro europeo perché la dimensione nazionale è ormai del tutto inadeguata e dovremo definire soluzioni che siano in grado, allo stesso tempo, di valorizzare l’opera dell’ingegno e tutelare il diritto alla fruizione dell’arte e della cultura.
Anche qui senza ideologismi ed estremismi: se crediamo, come crediamo, che la rete sarà in un futuro prossimo, il principale mezzo di diffusione dei prodotti culturali, dalla musica al cinema, dobbiamo evidentemente porci il problema di come remunerare chi produce cultura e trovare quindi soluzioni adeguate.
In molti Paesi europei si sta lavorando in questo senso. Ma anche in questo caso lavoreremo confrontandoci con le ragioni di ognuno.

Di seguito l’intervista a P. Zocchi. Punto Informatico: L’e-government italiano sta decollando, ma cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi cinque anni? A fronte di casi di eccellenza e di sempre più servizi della PA centrale, molti enti locali sembrano ancora assai indietro. Cosa si puo’ fare per procedere su questa strada?
Paolo Zocchi: La prima cosa da dire è quello da “non” fare. Smetterla di dare incentivi a pioggia, smetterla di considerare i processi di innovazione come un fiore all’occhiello da lasciare appassire. Pensare piuttosto ad interventi strutturali e a rimettere in moto il processo di semplificazione della PA che si è arrestato nel 2001. Francamente, come e-government, non mi pare che vi siano stati successi così grandi né nella PA centrale né in quella locale; nulla di comparabile con quanto aveva fatto il centrosinistra con grandi iniziative quali il fisco telematico e le leggi Bassanini per la semplificazione.

PI: E quindi cosa farete?
PZ: In primo luogo va cambiata la governance e va fatta ripartire l’innovazione nella PA attraverso grandi progetti-paese gestiti da una cabina di regia dove si compongano le diatribe di competenza tra i vari ministeri.
Diatribe che hanno ostacolato processi strategici come la CIE.
Quindi va ripensato il meccanismo relativo ai bandi di gara relativi all’ICT, sempre meno specifici, eccessivamente concentrati sui risparmi e tendenzialmente deprofessionalizzanti per le imprese del comparto.

PI: La banda larga si diffonde rapidamente in Italia. Telecom Italia detiene il 75% di questo mercato e i provider ora chiedono una soluzione all’inglese, ovvero una divisione di Telecom rete da Telecom servizi per offrire parità di accesso e quindi maggiore concorrenza. E’ praticabile? Avrebbe un effetto benefico sulla diffusione del broad band italiano?
PZ: Andiamo con ordine. Che sia necessario portare a termine il processo di liberalizzazione è ovvio a tutti; che questo possa seguire il modello inglese dell’Ofcom è probabile, anche se deve essere verificato alla luce del fatto che Telecom Italia non è British Telecom. Che la rete debba essere col tempo distinta dall’erogazione dei servizi è qualcosa che noi pensiamo sia vantaggioso per tutti, anche per l’ex monopolista. Non sarà un processo semplice né rapido; ma è inevitabile pensarci con grande tempestività.

PI: Adiconsum chiede che al broad band sia assegnato lo status di servizio universale…
PZ: Sulla banda larga come servizio universale è ovvio che si tratta di un punto di arrivo essenziale, un obiettivo di medio periodo, senza il quale non vi sarà vero sviluppo. Ma la banda larga non potrà essere servizio universale senza aver risolto prima la vexata quaestio della proprietà dell’infrastruttura di rete e di tutti i paradossi che, anche per il consumatore, genera il sistema basato sull’unbundling.
Credo che i processi di convergenza, tra l’altro accelerino le contraddizioni di questo sistema e impongano di agire con tempestività: Skype non è una meteora, ma una vera e propria killer application che stravolge i modelli di business legati all’antico concetto di fonia.

PI: Un numero sempre maggiore di soggetti, da provider a organizzazioni non profit, chiede che nella prossima legislatura sia adottato un qualche strumento che consenta di far conoscere proprio al mondo politico in modo più approfondito le caratteristiche della rete, sempre più centrali nella vita dei singoli e dell’intero paese. La sensazione è che possa rivelarsi utile uno strumento di “collegamento”, che permetta tanto al Governo quanto al Parlamento di agire mettendo al centro le necessità di sviluppo e il mantenimento di una rete libera. Che ne pensa? Qualcuno parla di Commissione bicamerale, un’ipotesi che all’ultimo convegno sulla Banda larga, in ConfCommercio, mi sembra lei ritenesse forse non adeguata al compito.
PZ: Il principio di fondo è che il Parlamento è il luogo essenziale della negoziazione civile e quindi ben vengano Commissioni di vario tipo. Ma la libertà della Rete, come è stato spesso dimostrato, è un fatto che nasce dal basso e spesso rischia di prendere strade diverse all’interno delle aule parlamentare: detto in altre parole, una Commissione deve avere una specifica competenza e, purtroppo, nel Parlamento non ce ne saranno moltissime di persone in grado di gestire, in modo attivo, i complessi processi tecnologici e sociali connessi alla società informazionale.
Io penso che luoghi come l’Osservatorio che presiedo possano essere ancora dei buoni elementi di sintesi tra la società civile e la politica. D’altra parte ritengo che questo collegamento non potrà essere possibile senza, in primo luogo, una soluzione diversa in termini di architettura istituzionale: ovvero, se l’innovazione tecnologica e la società dell’informazione non avranno ruolo politico e di governo sarà difficile che lo possa avere a livello istituzionale.

PI: Il progetto di Carta di identità elettronica sembra essersi arenato. Sollevava molti problemi di privacy, come più volte aveva fatto notare il Garante, ma sembrava gettare nuove possibilità nell’interlocuzione dei cittadini con la PA. Pensa sia necessario o possibile tornarci sopra? E in che modo?
PZ: Certamente sì. Ma tornarci sopra non significa avallare tutto quello fatto sinora. La CIE non è decollata non per mancanze tecniche, ma per deficienze di processo e ambiguità nelle competenze. Ricordo che la 445/2000, la legge Bassanini, già prevedeva che, ad esempio, la CIE potesse essere utilizzata come strumento di pagamento. Ecco, io penso che noi dovremmo rimettere in piedi un progetto di CIE multifunzionale, che non serva solo come identificazione, ma sia anche strumento polivalente, senza per questo togliere nulla ad una eventuale diffusione di Carte dei servizi. In parole povere, la CIE è una delle due gambe strategiche su cui si reggerà la nostra infrastruttura di e-government: l’altra sono i sistemi di pagamento on line.

PI: In Germania è pronta una legge che equipara il download di opere protette da diritto d’autore ad un furto vero e proprio. In Francia si sta trasformando il concetto di Digital Rights Management. In Italia si metterà di nuovo mano alle leggi sul diritto d’autore nell’era digitale? Si possono ipotizzare ulteriori modifiche alla cosiddetta Legge Urbani? E in quale direzione?
PZ: La Legge Urbani, per quello che riguarda la responsabilità dei provider, va semplicemente abolita. Le proposte di legge tedesche mi sembrano impensabili in Italia e spero non trovino seguito neanche in Germania. Ma il problema esiste e va risolto. Come Osservatorio e come Margherita noi abbiamo espresso chiaramente il nostro favore verso un sistema aperto di gestione dei diritti digitali, basato, ad esempio, sul metodo dei Creative Commons e su un maggior coinvolgimento dell’autore. Questo non significa abolire gli intermediari, ma assegnare loro un ruolo diverso, probabilmente meno forte, in un contesto ove la reperibilità di contenuti in rete è diretta e immediata.

PI: I finanziamenti a pioggia sulla televisione digitale terrestre hanno portato set-top box dedicati nelle case di milioni di italiani. Che progetti avete per il DTT nella prossima legislatura?
PZ: Non credo che il digitale terrestre, per quanto sia una tecnologia di sicuro interesse, abbia sortito gli effetti desiderati né che abbia risolto, come si auspicava da parte governativa, il problema del digital divide. Non si impongono tecnologie per decreto, men che meno con la fretta dovuta alla necessità di “gabbare lo santo” ovvero di aggirare la legge.
Il DTT è una tecnologia valida, ma scarsamente interattiva quindi non è pensabile di poter focalizzare un’eccessiva attenzione su di essa. Un principio di neutralità tecnologica, che è l’unico accettabile in un contesto vero di mercato libero, permetterà a diverse tecnologie, dal wireless al DVB-H, all’IPTV allo stesso DTT, di imporsi in un contesto di convergenza multicanale.
Il problema vero, però, sono i contenuti. Senza quelli non si va lontano: la nostra attenzione nel prossimo futuro dovrà essere molto concentrata sulla diffusione di contenuti digitali ancor prima che sulle infrastrutture. I content provider, come la RAI, dovranno investire molto di più nella produzione di contenuti digitali su diverse piattaforme e cambiare radicalmente mentalità: la storia della BBC può insegnare qualcosa. In un mondo convergente, come si può vedere, i destini del comparto tecnologico coinvolgono i modelli di business anche dei produttori dei contenuti.

a cura di Tommaso Lombardi e Paolo De Andreis

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Pubblicato il
4 apr 2006
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