Una disposizione contenuta all’interno di quello che è già stato ribattezzato “decreto antistupri”, approvato in Consiglio dei Ministri venerdì scorso, sembrerebbe avere un impatto molto forte nel mondo dei cosiddetti social network. Si tratta in particolare delle norme sulle molestie o atti persecutori, meglio conosciuto come stalking (o cyberstalking), che aveva fatto parte di un disegno di legge approvato alla camera all’unanimità e che doveva essere approvato dal senato, e che è invece stato preso “di peso” dal Governo e trasfuso all’interno del cd. “decreto antistupri”.
Il motivo generale per il quale è stata approntata una disciplina ad hoc delle molestie risiede probabilmente nel fatto che nel nostro ordinamento, allo stato attuale, non esiste una vera e propria definizione dello stalking, visto che la disciplina applicabile sino all’entrata in vigore della futura norma approvata dalla camera era (è) costituita dal reato ex art. 660 c.p. intitolato “molestia e disturbo alle persone” la quale sembrerebbe in effetti inadeguata a reprimere il fenomeno che si va sempre più allargando.
L’art 660 è infatti una contravvenzione, dal profilo edittale estremamente contenuto, caratterizzata tra l’altro da una difficile applicazione al mondo telematico, visto che la condotta illecita deve essere attuata in “luogo pubblico o aperto al pubblico o con il mezzo del telefono” e sorge il dubbio che internet sia effettivamente un luogo pubblico o aperto al pubblico. Questa lacuna aveva costretto di fatto le vittime delle molestie a ricorrere a fattispecie già esistenti, e le autorità di polizia ad adottare provvedimenti quali l’ammonimento o la diffida che già di fatto erano applicate per tentare di arginare il fenomeno.
Sotto quest’ultimo punto di vista le fattispecie “procedurali”, che facevano parte della prassi, e che dovrebbero precedere la vera e propria indagine penale sono state semplicemente trasfuse in un testo normativo. Ciò che genera gravi dubbi, per la formulazione alquanto “contorta” e per gli impatti che può avere sul mondo dei “social network”, è la definizione di “atti persecutori”.
Da quello che è dato apprendere dai media, il decreto avrebbe introdotto nel nostro ordinamento un nuovo articolo ovvero l’art. 612-bis, che così reciterebbe:
(Atti persecutori) – È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero a costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La definizione si caratterizza a prima vista per due elementi.
Il primo, l’ambito di applicazione generalizzato: scompare la differenza tra stalking telefonico o con altri mezzi e stalking telematico, quindi il fidanzato lasciato che si “apposta” sotto casa della fidanzata (e viceversa), il falegname che è venuto a sistemare i mobili e si è invaghito della figlia dei padroni di casa e il (o la) giovane che attraverso un social network si invaghisca di un altro individuo e cominci a cercarlo insistentemente in chat sono considerati la stessa cosa.
Il secondo è la figura centrale della vittima dello stalking: a prescindere dalle ipotesi aggravate che sono perseguibili d’ufficio, l’iniziativa è lasciata alla vittima che deve avere un “grave stato di ansia o di paura”. Da che il sottoscritto ricordi è la prima volta che un reato, e di tale gravità stando alla sanzione edittale, si basa in maniera esclusiva su elementi così “poco giuridici” e così sfuggenti come uno stato d’ansia. In altri casi infatti, ad esempio nel caso dell’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, che si realizza quando ad esempio un insegnante sottoponga a trattamenti umilianti il bambino a scuola, vi devono essere rischi di malattia nel corpo o della mente, ma lo stato d’ansia di per sé non può costituire l’elemento unico su cui basare l’incriminazione. Paradigmatico è il caso del mobbing, su cui sarebbe stato forse necessario intervenire visto che è ormai al centro dell’attenzione delle norme europee ed italiane, e che non costituisce al momento di per sé un reato ma viene posto comunemente in relazione a diversi ipotesi di reato quali ad esempio l’ingiuria, la minaccia, la violenza privata, anche se l’ipotesi che è apparsa finora preminente nelle azioni giudiziarie è quella di maltrattamento legato a vessazioni nei luoghi di lavoro, elementi, questi tutti, che possono portare la persona oggetto del mobbing a disturbi ansioso-depressivi e che possono far configurare quindi il delitto di lesione personale oppure di maltrattamenti. Quindi lo “stato d’ansia” in tutte queste ipotesi è la conseguenza non l’origine del reato, mentre nello stalking diventa l’origine di tutto. Ed in ogni caso nelle norme citate (e nei procedimenti conseguenti) ci si muove con molta cautela, anche da punto di vista edittale, per evitare clamorosi “abbagli” giudiziari.
La collocazione all’interno del decreto approvato dal Governo ci fa capire invece che le norme sullo stalking, nonostante siano state formalmente collocate dopo i reati di minaccia, siano in realtà modellate sulle ben più gravi ipotesi di violenza sessuale che, però, diversamente dallo stalking e al fine di evitare processi meramente indiziari, hanno un chiaro riferimento ad azioni antigiuridiche oggettivamente intese, e trovano conferme all’interno del processo nei riscontri anche fisici legati alle violenze subite. Questo non sembra accadere per lo stalking, che di fatto presenta come unica condizione incriminatrice lo stato d’ansia della vittima. A questo punto sorge spontanea la domanda: come si farà a stabilire oggettivamente uno “stato d’ansia” tale da far scaturire l’incriminazione?
Facciamo esempi pratici: nei social network ci si scambia spesso immagini, filmati e si intavolano conversazioni che spesso non avrebbero mai visto la luce nel mondo tradizionale. In caso di querela come si farà a stabilire quando e come è avvenuta la molestia? Dal numero di foto scambiate?
Dall’ansia che ha provato colui o colei che ha inviato foto e che magari si è pentito di averlo fatto? Dal timore che il (o la consorte?) possano
venire a sapere dello scambio? Dalla paura che il mondo esterno possa venire a sapere che si è chattato con un nickname? E il soggetto che riproponga più volte la richiesta di essere accettato tra i propri amici, se questo sia in grado di generare ansia al soggetto che riceve la richiesta di connessione, sarà responsabile di molestie, sino a rischiare quattro anni di reclusione? Ed il (o la) capoufficio che avrà chattato con la (il) dipendente sarà a rischio di incriminazione qualora qualcosa tra i due vada storto?
Insomma, come si farà a stabilire una demarcazione netta tra ciò che è lecito e ciò che illecito, considerando anche le mutevoli condizioni dell’animo umano, che difficilmente sembrano potere avere una univoca definizione normativa?
Tutto questo rende la norma talmente generica da far prevedere un potenziale abuso del ricorso a questo strumento ed un’enorme discrezionalità di
applicazione da parte degli organi di polizia e delle autorità inquirenti che non sembra poter avere risposta dall’infelice formulazione normativa.
Fulvio Sarzana di S.Ippolito
www.lidis.it