P2P e diritto penale in Italia

P2P e diritto penale in Italia

di Giovanni Ziccardi (IP Justice) - Definire criminale chi usa il P2P significa mescolare file sharing, contrabbando, contraffazione, masterizzazione su larga scala, dialers. Ecco cosa dice, in realtà, la legge italiana
di Giovanni Ziccardi (IP Justice) - Definire criminale chi usa il P2P significa mescolare file sharing, contrabbando, contraffazione, masterizzazione su larga scala, dialers. Ecco cosa dice, in realtà, la legge italiana

Roma – Il fenomeno del Peer-to-Peer sta vivendo un periodo a dir poco “strano”. Gli scambi in rete di files musicali aumentano. Aumentano anche le preoccupazioni dell’industria (si vedano le dichiarazioni di Enzo Mazza, Direttore Generale FIMI, contenute nell’intervista apparsa in questi giorni su Punto Informatico). Aumentano le azioni legali, portate, a volte, in maniera indiscriminata, contro gli utenti dei sistemi Peer-to-Peer. Aumentano gli annunci, sui quotidiani, di indagini che coinvolgerebbero migliaia di utenti che scambiano files in rete (annunci, poi, in molti casi, ridimensionati, ma che hanno un grande impatto mediatico). Aumentano le sentenze IN FAVORE degli “scambisti” di musica online (si veda il recente caso Grokster negli Stati Uniti e, comunque, tutte quelle decisioni – Jon Johansen in Norvegia, mod-chip della PS a Bolzano – che prendono le parti dei consumatori e che ricordano i limiti che devono essere rispettati anche nelle azioni legali). Aumentano i giudici che sono sempre più attenti ad analizzare tutti gli aspetti legali del caso, e non solo quelli connessi al rilievo economico del fenomeno o alla interpretazione che di tale fenomeno danno le grandi “corporazioni”.

L’intervista apparsa su Punto Informatico del Direttore Generale FIMI è stata rilasciata lo stesso giorno in cui la RIAA, negli Stati Uniti d’America, ha annunciato quasi 600 nuove azioni legali, in un solo giorno, contro utilizzatori di sistemi di file sharing. Azioni legali che, negli Stati Uniti (come ha rilevato di recente il New York Post, riportando il caso di una ragazzina indigente di 12 anni costretta a pagare qualche migliaio di dollari per vedere cadere le accuse mosse dalla RIAA nei suoi confronti) sono portate “a caso”, contro i tanti “anonimi” che condividono musica in rete.

Come giurista, in un quadro simile che è altalenante e, a volte, confuso, mi trovo spesso a ribadire un principio di diritto che troppo sovente viene dimenticato, e che è già stato opportunamente ricordato, poco tempo fa, sempre su Punto Informatico, da altri commentatori (vedi, ad esempio, D. Minotti, Il p2P e la legge italiana ).

Questo principio è semplice, ma consente di avere un punto di partenza certo in una situazione per molti versi caotica: la legge penale italiana vigente deve essere interpretata in modo assolutamente rigido. Punto. Non deve essere trasformata in strumento mediatico con fini di deterrenza; non deve essere interpretata, soprattutto, oltre il chiarissimo significato delle parole della legge penale stessa.

Non è un segreto, o un “trucco” da avvocati, è semplicemente un principio di civiltà giuridica che viene molto spesso – volontariamente o involontariamente, ma purtroppo a cadenze regolari – accantonato.
Intervenire in difesa della rigidità nell’interpretazione del diritto penale, e in particolare della centralità del diritto penale nell’ordinamento giuridico, non significa intervenire – sia ben chiaro – in difesa di un fantomatico diritto indiscriminato a scaricare materiale o opere protette e/o illegali da Internet.

La questione se il Peer-toPeer sia illegale o meno non è una questione giuridica facile da risolvere. Soprattutto, non tutti i giuristi sono concordi, in Italia e nel mondo, nel ritenere il Peer-to-Peer illegale in sé, anzi.

Chi usa il P2P è un criminale?

La EFF ha da tempo lanciato una campagna (condivisibile o meno, ma che sta avendo un grande successo) che mira a far superare l’idea che chi condivide musica in rete debba essere considerato un criminale. La campagna è nata in seguito alle migliaia di azioni che la Recording Industry Association of America ( RIAA ) sta portando contro migliaia di comuni cittadini che usano i sistemi di P2P. Congiuntamente a questa campagna, vi è una petizione in corso, già giunta a quasi 70.000 firme, che punta a presentare una proposta di riforma organica su questi temi al Congresso.

Ora, penso sia fondamentale, in primis, che l’equazione criminale=utilizzatore di sistemi di file sharing non si diffonda. Purtroppo molte volte, a puro scopo mediatico e demagogico, si tende a fare questa equazione. Si mischiano, nello stesso calderone, file sharing, contrabbando, contraffazione, masterizzazione su larga scala, dialers.
In realtà sono molto differenti le ipotesi criminali alla base di azioni di pirateria e falsificazione su larga scala (spesso collegate a fenomeni di criminalità organizzata e contrabbando) e il Peer-to-Peer di utenti comuni, non certo criminali, ma molto spesso semplici appassionati di musica.

Un altro punto che sovente crea dibattiti giuridici – e confusione nel “non giurista” – è se il decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 68, entrato in vigore il successivo 29 aprile (quel decreto che avrebbe introdotto i principi dell’EUCD nel nostro ordinamento e che avrebbe portato un “giro di vite” alla disciplina) abbia esteso al Peer-toPeer nuove ipotesi criminali.
Detto in termini meno giuridici, è vero o non è vero che dal 2003, in Italia, sono cambiate le cose e il Peer-to-Peer è diventato illegale?

Leggendo le dichiarazioni apparse in tante sedi, soprattutto da parte di operatori del settore musicale e audiovisivo, sembrerebbe di sì. In tanti hanno salutato il decreto legislativo n. 70 del 2003 (che si occupa di commercio elettronico ma prevede alcuni articoli sulla responsabilità del provider per i contenuti) e il già citato decreto legislativo n. 68 del 2003 come disposizioni – anzi, come nuovi mezzi, nuove “armi” – che avrebbero aiutato a colpire con maggiore efficacia fenomeni di questo tipo.

In realtà, e riprendendo ancora le considerazioni di D. Minotti apparse sempre su Punto Informatico, il decreto in questione “non ha spostato di una virgola il possibile trattamento penale da riservare al fenomeno del P2P”. Senza entrare troppo sul tecnico (si rimanda alle osservazioni di Minotti), in sintesi nell’articolo dell’avvocato genovese si legge come:
a)nessuna interpretazione seria (ovvero: non demagogica, promozionale, volta a intimorire o “mediatica”) possa portare alla cancellazione della rilevanza del dolo di lucro, ovvero la realizzazione di un vantaggio economico diretto;
b)il dolo di lucro e l’eccezione dell’uso personale sono previsti dalla prima parte dell’art. 171-ter l.d.a. e riguardano, senza eccezioni, tutte le ipotesi ivi previste. Sin dal 2000, la posizione del mero utilizzatore di materiali illeciti ha, a determinate condizioni, un suo trattamento amministrativo e non certo penale.
E’ ben differente, in conclusione, il dire che determinati comportamenti sono criminali – quindi passibili di sanzione penale – e il dire che determinati comportamenti possono avere – ma non sempre – un trattamento amministrativo, e non penale.

Non è vero, infine, che tutti i giuristi e gli esperti, in Italia, non abbiano dubbi circa la illiceità del Peer-to-Peer.
Nessuno discute il fatto che il Peer-to-Peer POSSA servire a diffondere, contro la volontà e i diritti dell’autore e di altri aventi diritto, materiale protetto.
Ma, da qui a sostenere che tale fatto comporti una sanzione penale, non è certo una opinione comune della dottrina italiana che da anni studia il panorama del diritto dell’informatica.
In particolare, la dottrina prevalente fatica non poco ad individuare la fattispecie criminale nella quale eventualmente includere il fenomeno del file sharing. E la dottrina è anche in difficoltà nell’individuare le diverse responsabilità correlate al download e all’upload (siamo davvero certi che chi “uploada” il file musicale abbia le stesse responsabilità di chi lo scarica?).
Equiparare il fenomeno del peer-to-peer al contrabbando agli angoli delle strade è al di fuori di ogni logica. Serve semplicemente a creare un deterrente, a intimorire gli utilizzatori, quando, in molti sostengono, dovrebbe essere l’industria stessa a vedere il Peer-to-Peer come mezzo per migliorare il servizio offerto ai consumatori e, soprattutto, per meglio retribuire gli autori.

In termini più generali, occorre dire che il P2P, almeno nelle sue espressioni più recenti e decentrate, non è illegale di per sé.
Tutto dipende da cosa si condivide.
Le modalità della condotta (lucrativa o meno) incidono, invece, sul trattamento sanzionatorio che, nella stragrande maggioranza dei casi, essendo lo sharing di solito gratuito, non ha rilevanza penale.
Non siamo qui a difendere il P2P perché sappiamo che, normalmente, si scambiano materiali sui quali terzi vantano diritti morali e patrimoniali. Tanto meno siamo a sindacare sull’opportunità o meno di perseguire il mero “scaricatore” di materiali protetti.
Abbiamo però il dovere di fare presente ancora una volta (e credevamo non ce ne fosse bisogno) che la legge penale vigente va interpretata in modo assolutamente rigido, senza trasformarla in minaccioso strumento mediatico di deterrenza, oltre il chiarissimo significato delle parole, senza una reale base giuridica.

Prof. Avv. Giovanni Ziccardi
IP Justice
http://www.ziccardi.org

Dello stesso autore:
DVD Jon e crisi della civiltà giuridica
Interviste/ Il copyright visto dagli hacker

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Pubblicato il 26 gen 2004
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