Roma – Le pene comminate agli individui che in Italia sono riconosciuti colpevoli di pirateria del software sono completamente sproporzionate ai fatti. Perché il valore dei software copiati illegalmente utilizzati come prove processuali è completamente distorto da un “approccio culturale” propagandato a suon di miliardi su tutti i media dalla potente Business Software Alliance (BSA) e dai suoi amici.
Quando un giudice italiano decide la pena da assegnare ad un pirata, lo fa tenendo conto di una serie di elementi soggettivi, legati cioè al caso particolare. Tra questi un dato da cui dipende la misura della condanna è quello del “valore del bottino”, ovvero “la stima del furto”, quanto vale cioè ciò che è stato sequestrato al pirata in termini di software copiato.
Ciò che appare incredibile è che questa valutazione avvenga non sulla base del valore di mercato reale del software copiato ma di quello di una confezione di software originale. Se, per fare un esempio di software tra i più piratati, Adobe Photoshop costa due milioni di lire in negozio e il pirata ne ha creato 100 copie, il valore del furto viene valutato in 200 milioni di lire. Ma, ed è qui il perno del problema, il valore di ciascuna copia non è pari a due milioni di lire ma semmai alle 20 o 30mila lire che quella copia vale sul mercato nero.
Va da sé, dunque, che quando un pirata viene condannato sulla base di un sequestro, oggi, la sua pena risulta essere più gravosa di quanto non dovrebbe. Molto più gravosa. Nell’esempio fatto, con 100 copie a 20mila lire, il “furto” si attesterebbe sui 2 milioni di lire, molto ma molto meno di quanto valutato in tribunale.
Né si può addurre, come invece si fa, che lo “spaccio” di 100 copie sul mercato nero rappresenti una mancata vendita per l’industria, perché non si può se non in mala fede ritenere che chi è disponibile ad acquistare una copia pirata da 20mila lire sarebbe allo stesso modo disponibile a procurarsi lo stesso software spendendo una cifra cento volte superiore.
Eppure sono proprio questi gli elementi che la BSA, principale nemica della pirateria sul software, inserisce nei propri comunicati stampa. Lo scorso maggio la BSA bacchettava l’Italia sostenendo che “i danni diretti” da pirateria nel nostro paese ammontano a 357 milioni di dollari. Se i calcoli fatti all’epoca sono stati eseguiti con il solito metodo, probabilmente il valore reale di quei danni, cioè delle copie pirata del software valutate sul mercato nero, ammontava a meno di due milioni di dollari complessivamente.
La stima del furto che viene attualmente fatta, oltretutto, contraddice uno dei comandamenti della comunicazione industriale. Da molto tempo, ormai, e proprio per contrastare il fenomeno della pirateria, le majors del computer business e le loro associazioni si spendono per far passare il concetto della diversità tra copia pirata e originale. L’originale, si dice, viene venduto con un supporto cartaceo, spesso un manuale, con le garanzie del caso e l’assistenza. La copia invece non è sicura, può non funzionare o contenere dei virus (proprio in questi giorni è emerso che alcune copie pirata di Windows98 conterrebbero un virus).
Di conseguenza l’equiparazione in tribunale del valore dell’originale venduto da un negozio in regola e quello di un software copiato illegalmente venduto sul mercato nero, mette a nudo tutte le difficoltà dell’industria riguardo alla pirateria.
Non solo, proprio questo elemento di contraddizione conferma l’infondatezza dell’attuale “valutazione di prezzo” del software pirata e addirittura getta delle ombre sul finora integerrimo capo di chi si è impegnato fino ad oggi nella lotta alla pirateria, ombre dovute ad accuse e condanne ottenute in tribunale, basate su presupposti del tutto errati. Con buona pace del mercato e degli spacciatori di software pirata che abbondano sulla rete ma che si trovano anche agli angoli di strada, nei negozi e nei mercati rionali.