Roma – Le recenti minacce alla sempre precaria sicurezza della Rete, come quelle portate dagli ultimi virus che si diffondono via e-mail, rischiano di provocare un danno maggiore di quelle degli attacchi precedenti e non solo per la virulenza dei loro codici.
Già il fatto di esserci trovati di fronte a quella che anticamente avrebbero chiamato una chimera, metà virus e metà cavallo di troia, potrebbe essere un segnale di cattivi presagi ma, il pericolo – quello vero – non arriva tanto dai danni che hanno provocato, che pure sono notevoli, ma dal contesto nel quale si diffondono queste continue “epidemie”. Non c’è sicuramente bisogno di ricordare a qualcuno la guerra in corso ed i tragici eventi che l’hanno preceduta e tutti, anche gli inguaribili ottimisti, concorderanno sul fatto che andiamo verso “tempi bui”.
Trasportato su Internet questo significa anche che, nei prossimi mesi, aumenterà sicuramente l’attenzione allarmata degli addetti alla sicurezza informatica, che rischia di arrivare, e non solo a causa dei pericoli causati da virus, worm e via dicendo, a livelli che solo qualche anno fa sarebbero sembrati esageratamente paranoici.
D’altra parte è forte la brutta sensazione di essere coinvolti, nostro malgrado, in una guerra che si combatte anche a livello cibernetico e questo significa che tutti pongono una attenzione maggiore che in passato alle tematiche della sicurezza dei sistemi informatici. Col rischio concreto di favorire l’estendersi di una mentalità del sospetto piuttosto che della collaborazione, della chiusura piuttosto che dell’apertura. Insomma, dopo l’11 settembre, anche sulla Rete sembra di essere meno liberi.
Ed è in questo scenario, non esattamente idilliaco, che è stato recentemente approvato a Bruxelles il trattato contro il crimine informatico, firmato congiuntamente da numerosi paesi europei ed extraeuropei, Italia compresa.
Anche senza entrare nello specifico delle decisioni prese, c’è però un aspetto della questione che sembra venga tenuto in secondo piano. Qualcuno ricorderà sicuramente il “vecchio” Echelon – il sistema caduto in disgrazia dopo le stragi di New York – e la Commissione europea che, solo pochi mesi or sono, segnalava preoccupata l’esistenza di questo fantomatico apparato di controllo globale e i rischi che comportava per la libertà delle comunicazioni e la privacy dei cittadini.
Oggi una posizione del genere sembra appartenere ad un lontanissimo passato poiché, con il trattato approvato a fine novembre, viene, tra le altre cose, pianificato proprio un sistema di spionaggio ai danni dell’intera collettività che, benché sia diverso come meccanismo di funzionamento, non ha nulla da invidiare al fantomatico Echelon.
Perché è di questo che si tratta: cosa distingue, nei fatti, l’obbligo per i “Service Provider” di conservare copia di tutto il loro traffico (per metterlo a disposizione degli investigatori) dall’attività di un sistema mondiale che filtrerebbe “tutta” la comunicazione prodotta, compresa quella elettronica?
Insomma, dovremmo domandarci se l’archiviazione da parte degli ISP di tutte le informazioni sui nostri movimenti in Rete servirà davvero allo scopo dichiarato o non piuttosto alla costruzione di enormi banche dati per la schedatura di massa. E dovremmo iniziare a chiederci, seriamente, fino a dove si possono spingere, su Internet, le lunghe orecchie delle polizie internazionali.
Ma queste sono alcune delle domande alle quali difficilmente troveremo risposte convincenti, specialmente in tempi come questi, tempi di guerra quando ormai anche le minacce che arrivano via e-mail non si chiamano più, poeticamente, “I love you”, bensì NIMDA, un nome che suona come quello dell’ennesima arma “intelligente”.
Come di consueto, a chi si pone interrogativi del genere viene risposto con il vecchio ritornello: “Se non hai nulla da nascondere, di cosa mai ti preoccupi?” Al che si potrebbe sicuramente replicare: “Ma a te piacerebbe vivere, per 24 ore al giorno e per il resto della tua vita, nella casa del Grande Fratello?”
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