Black hat: non siamo razzisti, siamo hacker

Black hat: non siamo razzisti, siamo hacker

Nel mezzo di una nota conferenza sulla sicurezza informatica esplode il tema del razzismo: il nome Black Hat andrebbe cambiato per annullare i bias?
Black hat: non siamo razzisti, siamo hacker
Nel mezzo di una nota conferenza sulla sicurezza informatica esplode il tema del razzismo: il nome Black Hat andrebbe cambiato per annullare i bias?

David Kleidermacher, VP of Engineering di Google ha lanciato alla conferenza Black hat  2020 una provocazione che sta a metà tra la grande visione e la boutade di chi la fa fuori dal vaso. La percezione collettiva va però nella seconda direzione, il che porta Kleidermacher ad essere contestato da gran parte dei partecipanti alla nota conferenza sul mondo della sicurezza informatica.

Black hat: razzismo o vecchio west?

La richiesta è stata infatti quella di smetterla di distinguere i “black hat” dai “white hat”, così come si distinguono i buoni dai cattivi, perché nel rispetto del movimento Black Lives Matter occorrerebbe affossare ogni distinzione tra bianchi e neri che possa contenere un qualche preconcetto. La richiesta era relativa ad una accezione generale di “black hat” nel mondo della sicurezza, cosa che in molti hanno però conto anche come una (effettivamente implicita) richiesta alla conferenza “Black hat” di cambiare il proprio nome. Dato il contesto di forte sensibilità sul tema negli USA, data l’importanza del personaggio e data la platea a cui è stato espresso il tutto, è come aver improvvisamente fatto divampare il tema del razzismo nel mezzo di una conferenza sulla sicurezza informatica. Con reazioni molto accese, peraltro.

Una parte – minoritaria – dei partecipanti avrebbe letto nelle parole di Kleidermacher la volontà di prendere sul serio la battaglia contro i bias razziali, assumendo un impegno formale per inseguire realmente alti obiettivi. La maggioranza relativa, invece, si è scagliato contro questa presa di posizione intravedendovi una sorta di ipocrisia di fondo. “Black hat”, infatti, non avrebbe nulla a che vedere con questioni di razza. Il nero, in questo caso, viene motivato in vari modi, ma nessuno di questi ha a che fare con il colore della pelle o con un giudizio di merito legato a differenze di colore. Il “black hat” è il colore di chi si nasconde nell’oscurità, dice qualcuno; il “black hat” è il colore che distingue il cappello dei cattivi nei film western rispetto al cappello bianco indossato dai buoni. In ogni caso l’idea è chiara: bianco e nero in questo caso sono i colori di un cappello e null’altro. Nessuna, neppur lontana, accezione al colore della pelle.

Alla luce delle polemiche, Kleidermacher rilancia:

Come a dire: la richiesta non era una accusa, ma una sorta di invito ad un impegno collettivo per l’inclusione e l’annullamento di ogni distinzione (anche di genere), così come ha già fatto Google annullando i termini “master” e “slave” (risalenti all’epoca dello schiavismo). Se si perpetua l’idea per cui il nero rappresenta il male e il bianco rappresenta il bene, non si sta operando in fede agli obiettivi che occorrerebbe porsi.

Un dibattito che forse si poteva evitare, o almeno che si poteva affrontare in sedi differenti e senza spostarne il baricentro su un social network da pochi caratteri. Così facendo, infatti, non si è fatto altro che allontanare le differenti sensibilità su differenti posizioni dogmatiche. Il risultato è una ulteriore dicotomia tra chi vede “bianco” e chi vede “nero”, riducendo i margini di dialogo e ampliando il perimetro di un incendio polemico che continua a divampare.

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Pubblicato il
5 lug 2020
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