Ciclicamente ritorna, nelle discussioni in Rete, la faccenda annosa dell’anonimato nei commenti. Ne ha scritto con toni enfatici Vittorio Zucconi sul suo blog qualche giorno fa, se ne parla in USA da tempo, e giusto la settimana scorsa è uscito un articolo al riguardo su The Atlantic .
Esistono due modi per analizzare un simile problema: mentre da noi prevale nettamente l’approccio etico, quello secondo il quale l’anonimato è un male perché deresponsabilizza i commentatori, negli Stati Uniti prevale da tempo quello tecnico-pragmatico del tipo “come facciamo a far emergere i contenuti di valore marginalizzando il rumore attorno?”
Scrive Zucconi:
Pare che la mia antica e vana battaglia contro l’anonimato, piaga e morte dei blog, cominci a trovare autorevoli consensi. Ora che attraversiamo, in Italia, una fase di animazione sospesa politicamente parlando, nella quale a noi tenutari di “maison” non basta più postare con “Berlusconi è un maiale” o dire che “tutto il mondo fa schifo meno tu e io”, alla Grillo, per avere migliaia di contatti e vendere qualche gadget con la carta di credito, il livello della discussione – si nota anche qui – si fa più riflessivo pur senza perdere di aggressività polemica e forse è arrivato il momento di abbandonare quelle ridicole mascherine da carnevale dei “nick” e di assumere la responsabilità di quello che si dice.
Mentre Rebecca J. Rosen su The Atlantic ha un approccio un po’ diverso:
The problem is simply that it’s hard to build a system that allows for smart ongoing conversations among large groups of people. It’s a harder problem, fundamentally, than how to present and create good content. (Il problema è semplicemente che è complicato costruire un sistema che consenta una conversazione interessante tra un gruppo ampio di persone. È un problema più complicato, fondamentalemente, di come creare e presentare contenuti interessanti.)
Costruire un sistema che filtri i contenuti in base al valore è una maniera molto corretta di immaginare la propria funzione editoriale sul web; questo non significa necessariamente prendere posizione sull’anonimato in Rete che è un tema che mal si presta a frettolose semplificazioni. In un mondo perfetto, del resto, il valore di un commento pubblicato su qualsiasi sito web prescinde dal fatto che il suo autore abbia firmato con il suo nome o con un nickname.
Il compito della tecnologia è quello di non adagiarsi sulla comoda opzione secondo la quale i commenti firmati sono buoni mentre quelli anonimi non lo sono. Molte dei sistemi allo studio per “filtrare” le conversazioni di rete partono da questo assioma, moltissimi si scontrano ancora oggi con la questione dell’anonimato. Per esempio in questi giorni il New York Times ha introdotto la figura dei trusted commenters , “commentatori affidabili” ai quali sarà consentito di pubblicare sul sito senza passare per una premoderazione: peccato che per diventarlo non basterà avere una storia di commenti di valore già pubblicati ma sarà obbligatorio utilizzare l’autenticazione via Facebook.
Diversa è invece la valutazione più generale sull’impatto dei commenti anonimi negli ambiti di discussione online. Su questo il discorso potrebbe esaurirsi in un paio di semplici punti. Il primo è che nessun luogo è uguale ad un altro: i commenti ad un articolo di un grande quotidiano non sono uguali a quelli di un piccolo blog, quelli del sito web di una celebrità sono differenti da quelli di un web magazine ecc ecc. Ognuno di questi ambiti di rete richiede scelte e strategie differenti. Il secondo punto è che, lo si faccia con strumenti tecnologici o in altra maniera, l’area dei commenti, se desideriamo che sia una utile continuazione del contenuto che si sta commentando, deve essere valorizzata il più possibile. Non è un caso che i grandi luoghi di rete senza grandi flussi di ritorno (per esempio il blog di Beppe Grillo o i commenti su Youtube) sono il trionfo di una inutile cacofonia.
Quindi la prima domanda che dovrebbe porsi chiunque scrive in Rete e decide di rendere commentabile le proprie cose è: “Mi interessano davvero i commenti dei miei lettori?”. La sensazione è che molto spesso chi biasima l’anonimato cerchi semplicemente una scorciatoia per liberarsi del gracidio inevitabile della folla. Si chiude la finestra e si fa finta che la folla non esista.
Io aggiorno da un decennio un blog piccolo ma piuttosto frequentato. La mia personale esperienza dice che un discreto numero dei commentatori ai quali sono maggiormente affezionato, che hanno scritto in questi anni nei commenti del mio blog cose importanti per me e per gli altri frequentatori delle mie pagine, sono persone che non conosco se non attraverso il loro nickname. Allo stesso modo alcune delle persone che hanno ostinatamente presidiato tali spazi alimentando polemiche e dissidi hanno sempre utilizzato tranquillamente il proprio nome e cognome.
In altre parole: stiamo attenti a non semplificare troppo. L’anonimato resta un valore importante ed è connaturato all’architettura della Rete. È, come è noto, un anonimato nella grande maggioranza dei casi solo formale, sul quale sarebbe bene non avere eccessive prevenzioni. Se il nostro scopo è quello ambizioso ed illuminato di far emergere i contenuti importanti, non sarà chiedendo la carta di identità che lo raggiungeremo. Se, viceversa, la lotta all’anonimato è un modo per ricondurre le nostre esperienze in Rete ad ambiti di comunicazione e confronto ai quali siamo maggiormente abituati, beh allora forse abbiamo sbagliato qualcosa.
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