Siamo nel 2030, almeno secondo l’immaginazione di Masamune Shirow nel 1989. Un hacker misterioso chiamato Puppet Master sta trasformando Internet in un campo minato, penetrando nei cyber-cervelli degli esseri umani e in ogni terminale della rete come un fantasma che attraversa i muri. Il Burattinaio è una creazione del Ministero degli Affari Esteri giapponese andata completamente fuori controllo, ricercato per una lista di crimini che suona come il curriculum di un supercriminale cyberpunk: manipolazione di titoli azionari, spionaggio, ingegneria politica, terrorismo e violazione della privacy neurologica.
Ghost in the Shell aveva previsto tutto 30 anni fa
Questa è la premessa di “Ghost in the Shell“, il classico anime giapponese che questa settimana compie trent’anni e che continua a sembrare spaventosamente profetico. Perché Puppet Master non è solo un cattivo di fantascienza, è quello che oggi chiameremmo un hacker sostenuto dal governo, una minaccia persistente avanzata (APT) del tipo che tiene svegli la notte i responsabili della sicurezza informatica di tutto il mondo.
Dire che Ghost in the Shell era in anticipo sui tempi è poco. Il manga originale è stato pubblicato a maggio 1989, lo stesso identico anno in cui Tim Berners-Lee inventava il World Wide Web. Mentre la maggior parte delle persone sulla Terra non aveva la minima idea di cosa fosse Internet, Shirow stava già immaginando un futuro dove hacker governativi potevano manipolare menti attraverso reti digitali. Il Web è stato lanciato pubblicamente nel 1991, quando il manga era già nelle mani dei lettori giapponesi che probabilmente pensavano fosse fantascienza pura.
Ma la parte più inquietante è quanto fosse accurato. Quando Puppet Master viene catturato, un funzionario della Sezione 6 spiega che avevano passato molto tempo a profilare le sue tendenze comportamentali e i suoi modelli di codice/tecnologia per creare una speciale barriera di attacco anti-puppeteer. Sembra familiare? Dovrebbe, perché è esattamente quello che le aziende di sicurezza informatica fanno ogni santo giorno. Non solo creano firme basate sul codice del malware, ma analizzano anche il suo comportamento e le sue proprietà usando l’euristica. Nel 1989, Shirow stava descrivendo tecniche di cybersecurity che sarebbero diventate standard industriale decenni dopo.
Stalkerware e violenza domestica digitale nel 1989
La trama di Ghost in the Shell è piena di dettagli che oggi riconosciamo come scenari di sicurezza informatica reali. Il maggiore Motoko Kusanagi, protagonista e comandante dell’unità antiterrorismo informatico Sezione 9, hackera la rete del Dipartimento di Igiene Urbana per rintracciare un camion della spazzatura. È una tecnica che gli hacker governativi usano costantemente: penetrare in grandi reti non per rubare dati da quella rete, ma per spiare obiettivi specifici al loro interno.
Poi c’è la scena dello spazzino che confessa al collega di aver hackerato il cyber-cervello di sua moglie perché pensa che lo tradisca. Ha usato un virus informatico ottenuto da un programmatore. È stalkerware, violenza domestica facilitata dalla tecnologia, un fenomeno degli ultimi anni. Nel 1989, Shirow stava già immaginando questo tipo di abuso quando la maggior parte delle persone non aveva nemmeno un computer a casa.
Il colpo di scena? Lo spazzino non aveva mai avuto una moglie. I suoi ricordi erano falsi, impiantati. Il suo “fantasma”, essenzialmente la sua mente, era stato hackerato dal Burattinaio per usarlo come pedina per attaccare funzionari governativi. È una tecnica che gli hacker avanzati usano ancora oggi: compromettere reti intermedie per poi usarle per attaccare il vero obiettivo, aggiungendo strati di separazione per nascondere le tracce. Nel gergo della sicurezza informatica si chiama “pivoting“, e Shirow l’aveva immaginato prima che la parola stessa esistesse in questo contesto.
John Wilander, veterano della cybersecurity che scrive narrativa hacker, ha analizzato la trama in modo esaustivo e ha trovato una quantità impressionante di dettagli che corrispondono a scenari reali. Hacker che riutilizzano exploit o malware noti per rendere più difficile l’attribuzione, ricercatori che indagano sul malware senza allertare gli autori infettandosi volontariamente con esso (così funziona l’analisi del malware nei sandbox), computer usati per spionaggio industriale (come gran parte degli attacchi cyber moderni).
E poi c’è il fatto che Puppet Master si rivela essere un’intelligenza artificiale avanzata e autocosciente che può controllare gli esseri umani attraverso i loro cyber-cervelli. Ok, questa parte è ancora fantascienza, almeno per ora. Ma considerando quanto dell’altro materiale sia diventato realtà, forse non dovremmo essere troppo sicuri.
Il contesto storico rende tutto più impressionante
Per capire quanto fosse profetico Ghost in the Shell, bisogna ricordare com’era il mondo nel 1989 e nel 1995 quando uscì l’anime. La sicurezza informatica esisteva come disciplina da qualche decennio, ma era una specialità di nicchia sepolta nelle viscere dell’informatica accademica e militare.
Il primo virus informatico documentato fu il worm Creeper, che si diffuse su Arpanet nel 1971. Una manciata di altri virus e worm causarono problemi negli anni successivi, ma divennero davvero onnipresenti solo dopo che Internet e il World Wide Web esplosero negli anni ’90.
La prima campagna di spionaggio governativo documentata su Internet fu scoperta nel 1986 da Clifford Stoll, un astronomo che gestiva i computer del Lawrence Berkeley National Laboratory.
Shirow vedeva il futuro (o prestava attenzione)
Masamune Shirow non ha mai parlato pubblicamente degli eventi reali che ispirarono la trama hacker di Ghost in the Shell. Ma è evidente che prestava attenzione a un mondo nascosto e sconosciuto alla maggior parte delle persone.
Trent’anni dopo, Ghost in the Shell continua a sembrare meno fantascienza… E se Shirow aveva ragione su tutto questo, forse dovremmo preoccuparci un po’ di dei cyber-cervelli hackerabili. Solo per sicurezza.