Google e la sferza dell'openness

Google e la sferza dell'openness

Spezzare le catene dei lock in, garantire una via di fuga dai propri servizi è motore dell'innovazione. Il Data Liberation Front invita gli utenti Google a fuggire, offrendo loro motivazioni per restare
Spezzare le catene dei lock in, garantire una via di fuga dai propri servizi è motore dell'innovazione. Il Data Liberation Front invita gli utenti Google a fuggire, offrendo loro motivazioni per restare

Milano – Cambia il modo in cui le persone operano con la propria creatività e il proprio lavoro, cambia il modo in cui conservano i propri dati personali e il distillato delle loro attività: spesso il loro operare si riversa online, stoccato nella nuvola di server remoti che non garantiscono all’utente la fisicità dei faldoni e degli album fotografici, ma che potenzialmente offrono una fluidità prima inconcepibile. Ammesso che i servizi a cui ci si affidi non innalzino delle barriere e vincolino i dati dell’utente al servizio con cui li gestiscono.

In questo clima si è assembrato in seno a Google il Data Liberation Front : scaturito nel 2007 dall’iniziativa dell’engineering manager Brian Fitzpatrick , da una gag a base di Monty Python e da un team di sei ingegneri, presentato al mondo nei mesi scorsi, il Fronte per la Liberazione dei Dati si è mostrato a Milano nei corso di una conferenza stampa. In cui si è dibattuto di trappole e di pigrizia nell’innovare, di openness e di competizione, atteggiamenti contrapposti che influenzano inevitabilmente la vita e i consumi digitali dei cittadini della rete.

La Grande G, racconta Fitzpatrick, offre ai propri utenti una via d’uscita : agli utenti è consentito di esportare il frutto del proprio lavoro e della propria creatività maturato con la mediazione delle applicazioni made in Mountain View . È possibile per circa i due terzi dei servizi offerti da Google : per le immagini immagazzinate sugli album di Picasa e per gli Alert recapitati via mail, per la cronologia Web e per i documenti creati a mezzo Docs, passando per i dati raccolti e organizzati da Analytics e il dipanarsi dei post espressi attraverso Blogger. Ed è consentito loro di farlo in formati standard , non necessariamente legati a tecnologie proprietarie, è possibile farlo nel modo più rapido possibile, operando su blocchi di contenuti per condensarli in un archivio. Google consegna così ai propri utenti il controllo sui propri dati, la possibilità di gestirli come meglio credono, con o senza l’appoggio dei servizi di Mountain View, fuori o dentro la cloud, assecondando le proprie esigenze e abitudini.

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Difficile immaginare quale sia la principale motivazione che spinge gli utenti a esportare i propri dati: avere il controllo e detenere a tutti gli effetti i propri dati, spiega Fitzpatrick, è un aspetto particolarmente importante per trasmettere il proprio patrimonio di ricordi , così da poter consegnare alla storia frammenti di memoria, inanellati senza dipendere da un servizio in particolare. È per questo motivo che l’engineering manager si sente particolarmente orgoglioso di aver liberato Blogger, o Picasa. Ma le motivazioni sono innumerevoli e di ordine diverso.

Sono ad esempio molti gli utenti che si servono dell’esportazione a scadenze regolari, magari settimanalmente. “Così come in molti credono che l’automobile sia più sicura dell’aereo – traccia un paragone Fitzpatrick – sono in molti a credere che i dati siano più sicuri sulla macchina locale che nella cloud”: ecco che, per rispondere a timori densi quanto forse ingiustificati, è offerta loro la possibilità di creare uno storico del proprio operato fatto di backup che si accumulano sugli hard disk di ciascuno.

Ma un altro aspetto interessante è quello del riuso e della possibilità di combinare i dati. Basti pensare ai mashup, spiega Fitzpatrick: detenere i propri dati significa altresì rielaborarli, condividerli e sovrapporli a dati messi a disposizione da altri utenti. Una situazione resa possibile dall’uso di standard, di un linguaggio comune che agevola la partecipazione e la creazione di opere sempre più collettive , in cui la proprietà dei dati si sfuma e si diluisce in una patrimonio condiviso.

La possibilità di liberare quanto venga prodotto con un servizio Google, spiega inoltre Fitzpatrick, è una via d’uscita per i dati che si arenano lungo un binario morto di applicazioni che vengono dismesse. L’esempio è quello di Google Notebook, il cui sviluppo è stato interrotto agli inizi del 2009: gli utenti hanno potuto riappropriarsi delle proprie note, hanno potuto travasarle dentro a servizi che ritenessero più stimolanti e aggiornati. Nessun problema per Google, tutto da guadagnare per i servizi che si facciano largo per occupare una posizione in cui prima competeva il colosso di Mountain View, soddisfazione per utenti davvero liberi di scegliere a quale servizio affidare le proprie attività.

Ma non di soli servizi in esaurimento si tratta. Avere il controllo dei propri dati significa innanzitutto libertà di scelta per l’utente . Che a sua volta rappresenta per Google lo stimolo a rimanere sempre degno di meritare la sua fiducia . “La concorrenza – ricorda Fitpatrick – è lontana un solo click”: basta un consiglio di un amico, basta un link, la barriera all’ingresso per saggiare le alternative al prodotto che si utilizza è pressoché inesistente. Il Data Liberation Front contribuisce ad agevolare questi travasi, eppure non costituisce per Google un autogol: “Non intrappoliamo gli utenti finali – spiegava tempo fa il CEO Eric Schmidt dai vertici del Googleplex – Se non vi piace Google, se per qualche motivo pensate che non facciamo un buon lavoro per voi, facilitiamo il trasferimento verso i nostri competitor”.

“Ci si deve meritare di perdere gli utenti così come bisogna meritare di tenerseli – chiosa Fitzpatrick – i sistemi chiusi, i lock in rendono pigri gli sviluppatori, funzionano sul breve termine”: il pungolo della soddisfazione dell’utente libero di scegliere, oltre che al lustro gettato sull’immagine di una corporation colossale, è un impulso a non adagiarsi per mostrarsi sempre ricettivi, all’altezza delle aspettative dell’utente. “Non siamo open perché siamo delle brave persone – sorride Fitzpatrick – siamo open perché l’open è business: perché l’openness, sul lungo termine, paga”.

Gaia Bottà

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Pubblicato il 19 apr 2010
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