Nelle ultime settimane la vicenda che ha visto contrapposta Wikipedia al Sindaco di Firenze ha riacceso il dibattito – in realtà mai completamente sopito – sull’anonimato in Rete: da una parte quanti si dicono convinti che l’anonimato costituisca un diritto fondamentale ed inviolabile degli utenti e dall’altra quanti, invece, si dichiarano pronti a rinunciarvi.
La questione è complessa e costituisce, probabilmente, uno dei problemi di maggior rilievo che i legislatori di tutti i Paesi saranno chiamati ad affrontare nei prossimi anni. Nessun Ordinamento giuridico, infatti, può prescindere dalla necessità di imputare ad un soggetto determinato ogni condotta giuridicamente rilevante nonché i suoi effetti e conseguenze, si tratti di responsabilità civile, penale o amministrativa o, piuttosto, dell’assegnazione di un premio, del riconoscimento di un diritto o del pagamento di un credito.
È ovvio, d’altra parte, che in caso di impossibilità di identificare l’autore della condotta, nella più parte dei casi si rende necessario ricorrere a meccanismi sussidiari di imputazione degli effetti e delle conseguenze della condotta medesima. L’anonimato in Rete, secondo i sostenitori di tale teoria, rappresenterebbe un diritto-presupposto per l’esercizio di altri diritti e libertà fondamentali quali, ad esempio, la libertà di manifestazione del pensiero con la conseguenza che eliminando il primo si comprimerebbe anche la seconda.
Si tratta di una conclusione, probabilmente, corretta sotto un profilo pratico ma difficile da condividere in termini giuridici e, soprattutto, nell’ambito di un ragionamento de iure condendo e di lungo periodo, anche perché essa costituisce la risposta ad un problema posto in termini inesatti. La questione, infatti, a mio avviso – se la si vuol porre in termini giuridici e non piuttosto in termini “romantici” – non è se sia opportuno sopprimere il diritto all’anonimato in Rete costringendo tutti ad agire a volto scoperto ma, piuttosto, se un simile diritto possa, effettivamente, ritenersi sussistere. La mia risposta a tale quesito è negativa.
Mr. Nobody – utente mascherato della Rete – non è titolare di alcun diritto e, tantomeno, di quello a mantenere celata la propria identità. Il ragionamento alla base di tale conclusione può seguire percorsi logici diversi: muovere dalla nozione di cittadino quale titolare dei diritti, dall’imprescindibilità della manifestazione della propria identità ai fini dell’esercizio di un diritto o, piuttosto, dall’imprescindibile esigenza che all’esercizio di ogni diritto o libertà faccia da contraltare l’assunzione di obblighi e/o eventuali responsabilità.
Proviamo a partire proprio da quest’ultima considerazione. L’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, prevede che “la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo” e “ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”. La responsabilità nelle ipotesi di abuso è, dunque, il contraltare della libertà e tale responsabilità presuppone, evidentemente, l’imputabilità ad un cittadino determinato dell’abuso medesimo.
Già sotto tale profilo, pertanto, l’idea che si possa “pretendere” di esercitare un diritto o una libertà sottraendosi, ex ante, all’eventuale successiva responsabilità mi sembra, francamente, assai poco convincente. Ma vi sono altre ragioni che mi portano a ritenere che non vi sia spazio né in Rete né fuori della Rete per un diritto all’anonimato. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948 stabilisce che “ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione…” e “alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione…”.
È ovvio che se l’esercizio della libertà di opinione dovesse o potesse avvenire in forma anonima non avrebbe avuto alcun senso rafforzare tale libertà fondamentale con il diritto a non essere molestato in ragione del suo esercizio. Ancora una volta, dunque, la libertà di opinione non sembra essere riconosciuta né riconoscibile a Mr. Nobody.
La libertà di manifestazione del pensiero, il diritto alla privacy, quello al lavoro o quello alla salute ed ogni altro diritto o libertà fondamentale competono al cittadino, identificato da un nome e da un cognome quale appartenente ad un certo Stato ed Ordinamento e non certamente ad un sedicente Mr. Nobody, incappucciato che si rifiuti di svelare la propria identità mentre esige di esercitare i propri diritti o libertà.
Contro l’idea di un anonimato assoluto in Rete, d’altra parte, non militano solo ragioni giuridiche. Gli ultimi anni, nel corso dei quali l’anonimato si è imposto come standard de facto con poche eccezioni, hanno infatti evidenziato che l’impossibilità di imputare una condotta ad un determinato soggetto innesca meccanismi complessi quali forme di monitoraggio di massa, attribuzioni di responsabilità agli ISP o, piuttosto, agli UGC. Persecuzioni e caccia alle streghe in luogo dell’individuazione puntuale ed indolore dell’autore della condotta incriminata.
D’altra parte l’idea che per poter esercitare una libertà fondamentale quale, ad esempio, quella di opinione occorra nascondersi, mi sembra che abbia il sapore della sconfitta più che quello della vittoria come sostenuto da quanti ritengono che l’anonimato costituisca un presupposto per l’esercizio di altre libertà.
Qual è la soluzione dunque? A mio avviso l’anonimato protetto. Ciascun utente sarebbe libero di agire in rete “mascherato” dietro ad un nick ma, prima di entrare, dovrebbe lasciare all’ISP le sue generalità nella consapevolezza che solo l’Autorità giudiziaria potrà accedervi nel caso in cui si renda responsabile, o vi sia il fondato sospetto si sia reso responsabile, di una serie di illeciti ritenuti dal legislatore di particolare gravità.
Avv. Guido Scorza
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