Passato-Prossimo/ Addio al VHS, meglio tardi che mai

Passato-Prossimo/ Addio al VHS, meglio tardi che mai

di A. de Prisco - Nei giorni scorsi Funai ha smesso di produrre videoregistratori VHS, ma la vera notizia è che fino al giorno prima fossero ancora in produzione
di A. de Prisco - Nei giorni scorsi Funai ha smesso di produrre videoregistratori VHS, ma la vera notizia è che fino al giorno prima fossero ancora in produzione

Nato nel 1976 grazie a JVC, il sistema di registrazione VHS (acronimo facile di Video Home System) ha certamente accompagnato l’esistenza di molti di noi “più maturi”, mentre non si esclude che chi, tra i più giovani, gioca oggi ad acchiappa-pokémon , non sappia nemmeno di cosa stiamo parlando. Meglio per loro, tutto sommato.

Fatto sta che a quei tempi, e nel ventennio successivo, non c’erano molte alternative per la videoregistrazione domestica , se non tecnologicamente simili per non dire sovrapponibili. Dal (dicono) più performante Betamax al più raffinato (e sfortunato) Video2000 , passando per alcune versioni compatte degli stessi (VHS-C, Video8 ecc.) e successive evoluzioni in salsa “alta qualità”, che nulla potevano avere a che fare con i successivi standard a definizione maggiore (HD, Full HD e 4K) giunti molti, moltissimi – oserei dire troppi – anni dopo, in piena e matura rivoluzione digitale del video.
Eppure, zitto zitto, il caro, vecchio, videoregistratore VHS ha avuto un piccolo ruolo anche in informatica , diventando unità di backup per i nostri preziosi file. Soprattutto in Russia, dove nacque e si diffuse la scheda ArVid (contrazione di Archive on Video), una sorta di “digitalizzatore al contrario”; nel senso che prendeva i dati digitali presenti sul computer e, previa trasformazione in un segnale analogico pienamente compatibile con il formato video, permetteva di salvare gli stessi su un comune videoregistratore. Si potrebbe aggiungere “non necessariamente VHS”, ma meglio non sbilanciarsi più di tanto…

Scheda ArVid

Naturalmente, la scheda prevedeva anche il processo inverso, più propriamente “digitalizzatorio”, in quanto era possibile anche il ripristino dei dai salvati in formato video analogico su VHS.

La capacità? A quanto risulta, su una videocassetta da 180 minuti si riusciva a memorizzare sì e no un paio di gigabyte di dati : una discreta quantità per l’epoca. Parliamo infatti di metà degli anni ’90, periodo in cui gli hard disk dei computer di noi comuni mortali difficilmente superavano la capacità del mezzo gigabyte (nulla a che vedere con i 4, 8 o addirittura 10 terabyte di oggi). Inutile aggiungere che si impiegavano appunto 3 ore – a dita incrociate – per salvare o ripristinare 2 GB di dati, in quanto la velocità del nastro quella era e quella doveva rimanere.


Ben diverso è lo scenario di oggi o, per meglio dire, quello futuro prossimo. La memorizzazione digitale dei dati, in particolare quella relativa ai backup in cui non è tanto importante la velocità quanto la capienza e l’affidabilità, esplora nuovi e interessanti orizzonti. Ricerche scientifiche ancora in corso – quindi nessun prodotto commerciale dietro l’angolo – mostrano chiaramente in quali direzioni ci stiamo muovendo, in particolare con le nanotecnologie e le biotecnologie che la faranno sempre più da padrone .

È il caso, ad esempio, dei ricercatori britannici dell’Università di Southampton, con i loro mini dischi in vetro nanostrutturato in grado di accogliere fino a 360 terabyte di dati e, soprattutto, di conservarli per un tempo illimitato a temperatura ambiente o accontentandoci di poco meno di 14 miliardi di anni in caso di temperature maggiori, dell’ordine dei 200 gradi centigradi.

minidisco in vetro nanostrutturato

Una vera e propria rivoluzione atomica è quella in arrivo dalla Delft University of Tecnology che promette di memorizzare un bit d’informazione nello spazio di un atomo di cloro, il che equivale a 500 terabit per pollice quadro , utilizzando l’ago di un microscopio ad effetto tunnel per il loro posizionamento. Peccato che al momento questa tecnologia è utilizzabile solo a -196 °C (la temperatura di ebollizione dell’azoto liquido) e in apposite cleanroom , o “camere bianche” che dir si voglia.

Per chi infine attende, cito testualmente, “il supporto di backup definitivo” potremmo presto (?) orientarci sullo storage biologico in arrivo nientepopodimeno che da Microsoft, con il contributo non secondario dell’Università di Washington. Qui la memorizzazione avviene addirittura su granelli di DNA sintetico, che la Casa di Redmond ha acquistato di recente per sperimentare, appunto, l’archiviazione dei dati digitali in forma di basi genetiche. La densità di memorizzazione – altro che VHS dei bei tempi andati – è da capogiro: si parla, come limite teorico, di un miliardo di gigabyte per millimetro cubo di DNA sintetico .
Poi, come riuscire in futuro – tra qualche centinaio, se non miliardi di anni – a leggere queste informazioni è un altro e ben noto problema , ma evidentemente non nostro.

Andrea de Prisco – AdP
Giornalista e Consulente informatico “da sempre”, ha collaborato per quasi 20 anni con MCmicrocomputer .

fonte immagini: 1 , 2

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Pubblicato il
26 lug 2016
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