Sed Lex/ Software, certi usi non sono punibili

Sed Lex/ Software, certi usi non sono punibili

di Daniele Minotti - Dopo gli applausi di BSA ad una sentenza della Corte di Cassazione val la pena chiarire che certi usi da parte dei professionisti non sono illegali. Professionisti che - attenzione - non sono imprenditori
di Daniele Minotti - Dopo gli applausi di BSA ad una sentenza della Corte di Cassazione val la pena chiarire che certi usi da parte dei professionisti non sono illegali. Professionisti che - attenzione - non sono imprenditori

Ho appena letto, su Punto Informatico , di una sentenza di Cassazione plaudita dalla BSA. Atteggiamento non imprevedibile, festeggiamenti a mio parere ingiustificati . Perché le conseguenze di questa “novità giurisprudenziale” non sono in linea con quanto dichiarato dall’associazione delle software house.

La pronuncia, in realtà, era già nota, ma proprio perché non realmente “innovativa”, non ha incontrato, almeno per il momento, l’interesse dei giuristi.
Purtroppo, le strumentalizzazioni di parte impongono un approfondimento che, francamente, ai più sembrava del tutto inutile.

Cominciamo col linkare la sentenza che BSA cita soltanto per estremi. Malgrado anche la massima sia un po’ fuorviante, è facile capire che l'”utilizzo” in ambito professionale non costituisce reato. Vediamo perché.

Leggendo la sentenza si capisce immediatamente che riguarda un caso di duplicazione e non, appunto, di detenzione e utilizzo . La differenza che passa tra le due ipotesi è grande, anche sotto l’aspetto giuridico.

L’art. 171-bis l.d.a., pur in una formulazione contorta, sanziona, infatti, tre distinti gruppi di condotte:
1) l’abusiva duplicazione a scopo di profitto;
2) l’importazione, la distribuzione, la vendita e la locazione a scopo di profitto e su supporti non contrassegnati SIAE;
3)la detenzione, sempre su supporti non contrassegnati, per fini commerciali e imprenditoriali.

Accantoniamo le questioni generali sul bollino. Tutti, d’altro canto, conosciamo la sua inopponibilità (sino a conforme valutazione della Commissione) e, comunque, l’irragionevolezza di una legge ruotante su quel tipo di vidimazione meramente formale. Parimenti, tralasciamo le ipotesi del secondo gruppo, palesemente non rilevanti.
Il caso concreto trattato dagli “ermellini” è chiaramente il primo, quello dell’abusiva duplicazione, ad esempio in violazione della licenza. Basta lo scopo di profitto (anche la mera soddisfazione morale senza accrescimento patrimoniale essendovi compreso il risparmio di spesa) e la destinazione commerciale o imprenditoriale non ha alcuna rilevanza. Ecco perché la sentenza appare corretta, seppur non abbia la portata che taluni vogliono farci credere.

Anzitutto, si tratta di una sentenza derivante da un ricorso contro una condanna patteggiata. Le stesse parole della Suprema Corte ci fanno capire quanto, giuridicamente, non si possa approfondire sugli aspetti fattuali quando le parti (pubblico ministero e imputato) hanno concordato la pena.
D’altro canto, sempre secondo quanto si può leggere, nessuno ha seriamente contestato all’imputato la personale (o anche soltanto delegata) duplicazione dei programmi che, pure, dovrebbe essere positivamente provata non potendola dare per scontata a fronte di un’installazione (che può essere stata posta in essere autonomamente anche da terzi, ad esempio un venditore di hardware particolarmente “zelante”).

Comunque sia (e nell’impossibilità di sapere di più su quella vicenda concreta), passiamo al diverso caso della detenzione (l’utilizzo è soltanto eventuale, ulteriore e irrilevante conseguenza) confermando che, come evidente dall’elenco di cui sopra, è sempre richiesto qualcosa in più rispetto alla duplicazione: il fine commerciale o imprenditoriale.
Sul punto, in realtà, era intervenuta la legge 248/2000 anche al fine di ovviare ad incertezze giurisprudenziali; comunque a mancanze della legge che, a mio modo di vedere, sussistono ancora oggi.

Prima del 2000, infatti, la detenzione era punita soltanto se effettuata a scopo commerciale (e il bollino SIAE non era decisivo per la sussistenza del reato). Il termine, per alcuni, significava esclusivamente “per la commercializzazione” (es.: per la vendita), mentre per altri copriva anche le destinazioni all’uso da parte di un imprenditore commerciale. A dirimere il contrasto è intervenuta, sin dal 2001, sempre la Cassazione sostenendo che la novella citata aveva, in realtà, soltanto precisato la volontà del legislatore previgente, senza aggiungere alcunché. Sicché il “fine imprenditoriale” doveva già intendersi come ricompreso in quello “commerciale”. A maggior ragione, con l’intervento del legislatore, oggi la rilevanza dei fini imprenditoriali non è più in discussione.

Ma le conseguenze vanno ben al di là di queste basilari considerazioni. Per la legge italiana, l’imprenditore è soltanto quel soggetto incontestabilmente definito dall’art. 2082 c.c. e, piaccia o no, è cosa ben diversa dal professionista intellettuale (architetto, avvocato, commercialista, medico, ecc., di cui agli artt. 2229 e ss. c.c.). E non si tratta di una distinzione soltanto formale o, addirittura, fittizia. Ad esempio, secondo la legge professionale forense, la professione di avvocato è incompatibile, tra l’altro, con l’esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui.
Ciò a testimonianza del fatto che il nostro legislatore ha inteso reiteratamente distinguere tra professionista e imprenditore.

Dunque, la detenzione a fini professionali non è penalmente sanzionata .

Confermano questa ricostruzione due sentenze, pur di merito, pronunciate nel 2006 dal Tribunale di Genova ( prima e seconda ), ma è parimenti limpida nella citata pronuncia di Cassazione del 2001, ove si chiarisce anche la portata della direttiva comunitaria dalla quale è discesa la nostra legislazione in tema di software, confinando le sanzioni ai fatti accertati in ambito imprenditoriale (anzi, addirittura dell’impresa “commerciale” di cui all’art. 2195 c.c.).

In estrema sintesi, se non è provata la duplicazione da parte dell’imputato (e l’installazione non necessariamente è prova di questa condotta da parte dell’imputato stesso), può contestarsi esclusivamente la detenzione che, però, per soggetti diversi da chi intende commercializzare la copia o dall’imprenditore non costituisce reato.

Giusto o sbagliato che sia, piaccia o no. Sed lex.

Daniele Minotti
www.minotti.net

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Pubblicato il
4 lug 2008
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