Siamo ancora capaci di cercare?

Siamo ancora capaci di cercare?

Il valore della ricerca come valore essenziale dell'essere online: per essere vivi, ancora, anche laddove la pigrizia ci ha spenti.
Siamo ancora capaci di cercare?
Il valore della ricerca come valore essenziale dell'essere online: per essere vivi, ancora, anche laddove la pigrizia ci ha spenti.

L’avvento dei motori di ricerca ha cambiato molto l’approccio dell’uomo con la ricerca. La scomparsa delle enciclopedie dal percorso pedagogico dei ragazzi è soltanto una delle conseguenze di questo cambiamento, ma anche lo stato di salute delle biblioteche andrebbe probabilmente studiato con maggior attenzione. E così l’accesso agli archivi. Il tutto può essere semplicisticamente archiviato come una fuga dalla carta, come una mera e lineare conseguenza della digitalizzazione delle informazioni, e probabilmente non si sbaglia di troppo. Ma c’è qualcosa di ben più profondo e intimo in tutto ciò. Qualcosa di attinente tanto alla persona come singola entità, quanto alla società come agglomerato e processo evolutivo.

Come a suo tempo la scuola fece un gran lavoro per insegnare ai ragazzi come accedere alle informazioni (dove trovarle, di quali fidarsi, come utilizzarle), così occorrerebbe procedere oggi. Perché a mutare sono le basi stesse dell’accesso al Sapere, a maggior ragione in un’epoca in cui, essendo estremamente facile e rapido il reperimento delle informazioni, si tende a ridurre l’onere della memoria in favore della capacità di accesso all’archivio.

Occorre pertanto porsi il quesito, poiché probabilmente centrale nella comprensione del modo in cui impariamo e gestiamo le informazioni nella vita quotidiana: siamo capaci di cercare?

Le fonti della ricerca

Le fonti sono il problema principale, forse quello più noto, ma forse ancora quello più sottovalutato. Internet ha infatti creato una struttura orizzontale ove le gerarchie sono state sostituite dall’influenza e dove la centralità è stata sostituita dall’engagement. Capire se una fonte sia affidabile o meno è oggi non solo sempre più difficile, ma è anche un lavoro al quale si dedica sempre troppo poco tempo. Citare la fonte dovrebbe essere un dogma assoluto, oggi più di un tempo, proprio in virtù di questa importanza. La tracciabilità dell’informazione dovrebbe essere l’unico antidoto alle fake news ed alla riconsegna di un minimo di scientificità al dibattito quotidiano online.

E invece non succede. Le informazioni sono spesso parcellizzate e isolate, prive di link e di citazioni, le tracce si perdono facilmente e ricostruire fatti e versioni è cosa oltremodo complessa. Non saranno gli strumenti digitali a risolvere questo problema: solo una nuova cultura della ricerca può riportare salubrità in questi processi, ove la fonte dovrebbe essere cuore pulsante di qualsivoglia passaggio di informazione. Mentre ti passo una nozione, ti dico dove l’ho presa: tu puoi risalire alla mia fonte e costruire un percorso tuo, nuovo ed originale, costruendo una nuova verità sapendo di non essere partito da basi fragili. Quel che sembra ovvio è in realtà tutto fuorché scontato e proprio dalla scarsa abitudine e capacità a capire le fonti nasce gran parte del rumore di fondo che rende spesso impraticabile una sana discussione online.

Occhio però, perché il problema non è legato alla sola realtà online, benché online esprima il peggio di sé: quando in tv arrivano documentari improbabili o teoremi politici astrusi, l’effetto è identico. Ma è la catena del passaparola online a fare in modo che “scripta manent”, con tutti gli ormoni che la viralità regala al flusso incontrollato del “condividi”.

Gli archivi per la ricerca

Dove cerchiamo? Su Google. Ma Google dove cerca? Su parte dei siti Web, organizzando le informazioni secondo propri algoritmi e accedendo soltanto ad una porzione limitata del mondo online. La semplicità e velocità di questo processo, però, troppo spesso esclude dalla ricerca tutto quello che è offline, tutto quel che non è indicizzato, tutto quello che non è immediatamente reperibile. La discriminante non è Google (bontà loro), non sono gli algoritmi, non è l’ombra lunga del vecchio Pagerank: la discriminante è la fretta.

La fretta e la ricerca sono due parole che non vanno volentieri d’accordo e che soltanto in Google sono diventate un parziale ossimoro dai buoni risultati. Ma questo ossimoro è diventato anche una sorta di ossessione che ci ha resi pigri, e in parte ciechi, al cospetto della quantità e vastità di informazioni che ci sono anche al di fuori della portata di Google.

A merito e onore di Google va un progetto come Google Books, che tenta di portare online archivi cartacei altrimenti difficilmente reperibili e raggiungibili: questo servizio rende facile un processo che sarebbe altrimenti impossibile, mettendo l’informazione a disposizione delle masse e rendendo un servizio pregevole alla cultura di massa. Purché l’utente medio impari a usare anche questo servizio. Purché si impari davvero a cercare.

Il metodo della ricerca

Quanti utenti conoscono e utilizzano gli operatori che Google mette a disposizione per effettuare ricerche sul proprio motore? Si tratta di piccole utili scorciatoie in grado di rendere più complessa, mirata ed efficace la ricerca, ma al tempo stesso si tratta di un sforzo che il motore volentieri ci risparmia cercando di ottimizzare il proprio ranking giorno per giorno. Ancora una volta è la pigrizia a intrappolarci: l’utente è generalmente abituato a delegare il metodo della ricerca a Google, senza fornire indicazioni precise e senza fornire alla ricerca una pre-elaborazione fatta di intelligenza umana. Operatori quali site:, OR o related: occupano presumibilmente frazioni minimali del totale delle query composte, rendendo così più codificabili e prevedibili le modalità di accesso degli utenti alle informazioni. Grazie a questa prevedibilità, il machine learning potrà probabilmente migliorare le risposte dei motori negli anni a venire, ma le logiche a cui risponde una SERP non sempre e non per forza sono le stesse alle quali dovrebbe rispondere un percorso di una persona verso una informazione utile in un determinato contesto.

I motori di ricerca fanno un grande lavoro ed i benefici che determinano sono incalcolabili. Ma nel lungo periodo dovrà essere pesato anche l’effetto dell’inerzia con cui ci si abbandona passivamente alle ricerche, l’ignavia generata da anni di query senza proattività e senza partecipazione, come se fosse sufficientemente qualche click per far piovere conoscenza fruibile e codificata. Così non è, e il rischio è quello di abdicare al nostro ruolo di entità dotata di intelligenza.

Il linguaggio della ricerca

Mentre i motori di ricerca fanno grandi sforzi per cercare di comprendere il linguaggio umano (anche interagendo tramite la voce), l’uomo sta inconsapevolmente facendo grandi sforzi per cercare di esprimersi nel linguaggio del motore di ricerca. Il modo in cui compiliamo le query spesso non è naturale, ma è un compromesso tra il modo in cui ci esprimiamo ed il modo in cui riteniamo che siano conservate e indicizzate le informazioni. Questo ha portato ad una conseguenza ulteriore, ennesima distorsione in questo già complesso meccanismo: la “scrittura SEO” che i siti utilizzano per raggiungere meglio quel punto di sintesi tra uomo e macchina, ove si ipotizza possano esserci le masse pronte al click.

Il linguaggio utilizzato stesso cambia, quindi, in virtù della necessità di arrivare rapidamente al risultato. Non formuliamo più domande e non scriviamo più punti interrogativi, poiché orpelli inutili: il modulo bianco di Google è lì che ci aspetta per fornire risposte, quel che si aspetta da noi sono domande, non resta che fornire parole chiave e nessuna complessa elaborazione sintattica. Nella sintesi si perde qualcosa (a volte molto), ma si conta di recuperarlo tra la quantità infinita delle SERP. Quantità come paradossale risposta alla scarsa qualità della SERP, in virtù della pessima qualità della domanda. Poi in realtà non si scorre mai oltre la prima pagina, ed in questo si completa il corto circuito di un processo nel quale l’uomo è sempre più intelligente, il motore è sempre più intelligente, ma la ricerca è sempre più stupida.

La pulsione della ricerca

Un esempio, per capirsi: “questo Governo non è stato eletto dagli italiani“. Quante volte lo abbiamo sentito in questi giorni? Su questa affermazione si moltiplicano i post, gli articoli, i tweet. Ma quanti di questi contenuti diventano realmente materia per una risposta, per un fact checking, per un confronto, per una ricerca di Verità? Quanto di questo materiale affonda alla realtà del problema e quanto invece aleggia tra le sue sfumature, foraggiato magari di astio, click-baiting, fake news e propaganda?

Quando si ascolta una affermazione simile, qualunque sia la propria fede politica, occorrerebbe chiedersi “è vero?” o anche solo “cosa significa questa affermazione?“. Porsi delle domande sta alla base della ricerca: siamo certi di essere ancora capaci di porci domande, o stiamo assistendo ad un grande spettacolo con il solo diritto di cambiare canale? Se ci si ponesse davvero questo dilemma, si potrebbe tentare di risalire al testo costituzionale, o affrontare un qualche testo di natura giuridica, o qualche sito che parla di diritto: anche quando l’educazione civica non ha fatto almeno il minimo del proprio dovere, si dovrebbe provare a risalire alla fonte. Ed a quel punto ci si potrebbe fare un’idea, un’idea qualsiasi, della bontà di questa affermazione, delle sfumature delle argomentazioni, della bontà di chi ha firmato queste parole.

Il nostro modo di confrontarci con le affermazioni è invece perlopiù casuale, facendo una summa delle deduzioni che la nostra bolla social sta esprimendo e senza la pulsione sacra alla ricerca. Dovrebbe essere questa una pulsione straniante, qualcosa che porta ad uscire dal dibattito per cercare nel silenzio un qualche elemento di verità da poter mettere in circolo. Nell’economia dell’always-online, però, non c’è tempo: tutto è istantaneo. Reattività e iperpresenza sono alla base del successo nella ricerca di un posto al sole, il che non si sposa con la riflessività ed i tempi lunghi della ricerca.

Coltivarsi una buona community è diventato elemento sostitutivo del coltivarsi una valida cultura e, anche se le due cose potrebbero fecondarsi a vicenda, in realtà si annacqua tutto nel rumore di fondo di un dibattito eterno, costante, senza soste. Stessa sorte è toccata alla lettura, frammentata e veloce, che mette al bando la dignità di un long-form a vantaggio di uno stillicidio di tweet. Non è sano, ma è parte del processo evolutivo che stiamo affrontando. Ne usciremo, anche se non sappiamo ancora come.

Re-imparare a cercare

Chi di noi è pronto ad un motto rivoluzionario? Chi di noi è pronto a sposare nuovamente i sacri crismi della ricerca, impegnandosi quotidianamente per diventare hub miglior in questa società iperconnessa? Chi di noi è genuinamente pronto ad una obiezione di coscienza rispetto all’omologazione, all’iperpresenza e alla pulsione quotidiana ad avere ed esprimere un’opinione immediata su tutto quel che ci circonda?

Imparare a cercare non significa solo scelta di uno strumento, codifica di una query o studio di un archivio: significa beneficio del dubbio, significa atteggiamento critico, significa “sapere di non sapere” con atteggiamento propositivo. Imparare a cercare fuori da sé, significa anzitutto sapere che manca qualcosa in sé: sia il bisogno di colmare questo vuoto a portare la persona verso nuove informazioni e nuove Verità.

Tutto il resto è una infinita SERP sulla quale passare una vita di scrolling senza mai immergersi davvero.

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Pubblicato il
30 ago 2019
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