L'intelligenza artificiale di Uber parla italiano

L'intelligenza artificiale di Uber parla italiano

Intervista a Piero Molino, ricercatore esperto di intelligenza artificiale e deep learning, oggi al servizio del team Uber AI Labs a San Francisco.
L'intelligenza artificiale di Uber parla italiano
Intervista a Piero Molino, ricercatore esperto di intelligenza artificiale e deep learning, oggi al servizio del team Uber AI Labs a San Francisco.

La visione di Uber relativa al futuro della mobilità passa dall’impiego di tecnologie avanzate per affrontare alcuni dei più gravosi problemi che oggi interessano l’ambito urbano. Un percorso iniziato ormai diversi anni fa con il lancio del servizio di ride sharing, proseguito poi con la sperimentazione dei veicoli a guida autonoma e la cui finalità dichiarata è quella di arrivare un giorno non troppo lontano ad adottare un approccio intermodale per la gestione degli spostamenti.

Uber e IA: intervista a Piero Molino

Per capire in che modo soluzioni software, algoritmi, dati, applicazioni pratiche dell’IA e coinvolgimento delle terze parti possano contribuire a centrare l’obiettivo abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Piero Molino, italiano doc, che dopo aver completato il percorso di studi all’Università di Bari si è spostato nella Bay Area dove oggi è Senior ML / NLP Research Scientist nel team Uber AI Labs.

Piero Molino, Senior ML / NLP Research Scientist di Uber AI Labs

Nel profilo LinkedIn si definisce una “mente curiosa”, affascinato dalle “interconnessioni tra conoscenza, linguaggio e apprendimento”, sempre alla ricerca di “soluzioni non ovvie per i problemi, attraverso un approccio multidisciplinare”. In passato ha lavorato come sviluppatore freelance, fondato la startup QuestionCube e messo le proprie abilità al servizio del team IBM impegnato con il supercomputer Watson, prima di passare a Uber in seguito all’acquisizione di Geometric Intelligence nel 2016. Partiamo dunque dalle sue competenze in tema di intelligenza artificiale per capire come un nostro connazionale stia dando il suo contributo a definire una nuova forma di mobilità.

Piero, iniziamo con una domanda semplice: cosa ci fa un italiano negli AI Labs di Uber?

Hai già fatto un bel riassunto di quella che è stata la mia traiettoria finora. Sono arrivato a lavorare qui un po’ per fortuna, un po’ per audacia e un po’ grazie a persone che hanno creduto in me (in particolare Alfio Gliozzo, mio precedente manager in IBM). Ad Uber AI lavoro in particolare su sistemi di elaborazione del linguaggio naturale e su sistemi di dialogo, che sono un tema particolarmente importante visto l’impatto che possono avere sulla sicurezza e sulla qualità della vita dei driver partner di Uber.

Il mio focus è principalmente su aspetti di ricerca, algoritmi che forse oggi non risultano molto pratici da integrare nei prodotti che raggiungono gli utenti, ma che cercano di spingere un po’ oltre quello che è possibile fare con un calcolatore. Detto ciò, metto spesso lo zampino anche nelle applicazioni, come ad esempio per il modello di supporto all’assistenza clienti e per i modelli di predizione del tempo di consegna di UberEats, così come per i modelli che stiamo attualmente testando per l’applicazione dei driver partner che permetteranno di interagire con l’applicazione senza dover toccare il dispositivo, ma usando la voce.

Perché ritieni che cercare nelle potenzialità dell’intelligenza artificiale la soluzione a problemi attuali e globali, non solo per quanto concerne la mobilità, sia la strada giusta da percorrere?

È una domanda cui è complesso rispondere. Direi che in un mondo interconnesso e molto complesso prendere decisioni diventa sempre più difficile. La semplice quantità di informazioni da dover tenere in considerazione è paralizzante. In questo scenario l’intelligenza artificiale può essere usata per aiutarci a prendere decisioni mostrandoci l’evidenza, distillandola e rendendola intelligibile, permettendoci di ipotizzare le conseguenze delle nostre azioni.

Uber e guida autonoma

L’IA può essere quindi uno strumento importante per prendere decisioni informate dai dati, scenario che ritengo più auspicabile rispetto a quello in cui le decisioni vengono demandate agli algoritmi. Questo è particolarmente importante in una società che invece sembra star reagendo alla complessità del mondo globale scappando dalla realtà e rifugiandosi in narrative più o meno fantasiose, che portano spesso ad agire più con la pancia che con la ragione.

Oggi il team di cui fai parte pubblica sotto licenza open source una libreria attraverso la quale tutti, anche senza particolari competenze in termini di programmazione, possono creare modelli di deep learning. Ti va di parlarcene?

Certo, d’altronde è nata come mio progetto personale e ci ho lavorato costantemente negli ultimi due anni! La libreria si chiama Ludwig e permette a chiunque sia in possesso di dati in formato tabulare (come CSV o Excel per intenderci) di addestrare un modello di deep learning specificando quali colonne del nostro file sono i dati di input e quali invece sono output da predire. La principale novità è che la libreria costruisce il modello dipendentemente dai tipi di dato di ciascuna colonna (numeri, categorie, testi, immagini, serie numeriche) e dunque permette di costruire modelli per molte applicazioni diverse di apprendimento automatico.

Ad esempio fornendo del testo come input e delle categorie come output si addestra un classificatore di testi, mentre fornendo immagini come input e testo come output si può addestrare un sistema che genera didascalie per immagini. Poiché si possono combinare molteplici input e molteplici output diversi allo stesso tempo, le applicazioni sono potenzialmente infinite. E per fare ciò è sufficiente eseguire pochi semplici comandi (uno per addestrare e uno per predire) senza dover conoscere alcun linguaggio di programmazione, mentre invece gli sviluppatori hanno a disposizione delle API grazie alle quali possono richiamare le stesse funzioni direttamente dovendo scrivere appena un paio di righe di codice e in questo modo possono costruire applicazioni attorno ai modelli che Ludwig fornisce.

In quale tipo di applicativi o soluzioni potrebbe essere integrata?

Le applicazioni dipendono tutte dall’inventiva degli utilizzatori e dalla disponibilità dei dati. Combinando immagini come input e categorie come output ad esempio si può costruire un classificatore di immagini, ma cosa questo classificatore apprenderà dipende dai dati utilizzati per addestrarlo: fornendo immagini di automobili insieme al loro nome, ad esempio, il modello apprenderà a riconoscere tra diverse automobili, ma se invece vengono fornite immagini cliniche associate a diversi tipi di malattie che è possibile riconoscere da quelle immagini, allora il modello apprenderà a riconoscere le malattie.

La libreria Ludwig

Considerando poi che oltre a immagini e categorie si possono creare modelli che imparano a predire valori numerici, testi e serie temporali, le applicazioni possono spaziare dal sistema che genera riassunti automaticamente a quello di traduzione, dal sistema che predice il prezzo di una casa date le sue caratteristiche a quello che suggerisce prodotti a un acquirente.

Com’è lavorare per una realtà come Uber?

Per me l’aspetto migliore è quello di avere colleghi di livello stratosferico da cui imparo qualcosa di nuovo ogni giorno. È una crescita continua, a volte anche un po’ estenuante, ma che ti regala tanto sia a livello professionale sia a livello umano. Inoltre la cosa più entusiasmante è il lavorare su problemi che hanno un effetto diretto sulla vita delle persone, a livello fisico, cosa diversa da altre aziende tecnologiche della Silicon Valley.

I problemi di predizione spaziotemporali che affrontiamo non li ha dovuti affrontare nessuno nella storia prima di noi. Basta fermarsi a pensare che, considerati i 5 miliardi e più di corse effettuate tramite Uber, è sufficiente migliorare ad esempio il nostro algoritmo che predice il traffico di un solo minuto per, in pratica, far risparmiare 3,5 milioni di giorni all’umanità che altrimenti verrebbero trascorsi nel traffico. Questo ovviamente ti fa sentire una certa responsabilità e la costante esigenza di dare il meglio di te stesso, ma senza questo brivido non mi divertirei così tanto.

In quanto a stretto contatto con un team che ha contribuito a introdurre e diffondere un nuovo modo di intendere gli spostamenti, ti chiedo uno sforzo di fantasia: come immagini l’universo della mobilità tra dieci anni?

Uber ha lanciato il progetto Uber Air circa due anni fa. L’idea di un trasporto urbano e suburbano verticale sicuro ed efficiente è di certo allettante e migliorerebbe la qualità della vita di molti (basta pensare a tutti i pendolari Monza-Milano che arriverebbero in città in un quarto d’ora), ma nonostante i molti progressi in questa direzione, non sono sicuro che sarà alla portata di tutti entro i prossimi dieci anni.

Uber Air

Quello che invece credo accadrà certamente è che le diverse modalità di trasporto diventeranno sempre più interoperabili, al punto che non sembrerà più impensabile indicare l’indirizzo di un albergo a New York su di un’app stando seduti sul proprio divano di casa e acquistare un pacchetto che include l’Uber che ti porta alla stazione, il biglietto del treno che ti porta in aeroporto, quello del volo che ti porta al JFK e l’Uber che ti porta all’albergo, senza dover aprire quattro differenti siti o app per incrociare gli orari e pagare con diversi sistemi. Se in questo poi si includono servizi di noleggio di automobili e biciclette o monopattini elettrici, credo davvero che l’idea di un servizio che porta le persone da un punto A a un punto B del pianeta sia alla nostra portata.

Lasciando da parte le applicazioni pratiche dell’IA, da addetto ai lavori ritieni giustificate le preoccupazioni di chi chiede di regolamentarne lo sviluppo chiamando talvolta in causa anche questioni etiche oppure si tratta di timori eccessivi?

Credo che l’etica e la sicurezza nei sistemi di intelligenza artificiale siano temi estremamente importanti. All’interno della nostra organizzazione esiste un team guidato da Joel Lehman specificamente dedicato a lavorare su questo tema dalle molte sfaccettature. Io però ci terrei a fare dei distinguo: ritengo che gli allarmismi apocalittici sollevati da una certa fascia della Silicon Valley e fomentati anche da giornalismo sensazionalistico siano fondamentalmente degli specchietti per le allodole che distolgono l’attenzione da quelli che sono effettivamente temi importanti da discutere e su cui lavorare.

Luciano Floridi ne cita spesso alcuni. Parafrasando e aggiungendoci un po’ di mio: la capacità di algoritmi che sanno molto su di noi di manipolare le nostre decisioni, l’uso di algoritmi predittivi in contesti sensibili come polizia, giustizia e antiterrorismo, l’automazione di alcuni tipi di lavori (che potrebbe non essere un pericolo in sé, ma lo può diventare in assenza di contromisure sociali), il demandare decisioni ad algoritmi non propriamente intelligenti o le cui decisioni non riusciamo ad interpretare. Questi sono i temi su cui vale la pena riflettere a mio parere, il resto è più che altro fantascienza.

Infine, considerando il legame con il tuo paese d’origine, come ritieni sia oggi posizionata l’Italia nei confronti dell’intelligenza artificiale? L’industria ne ha compreso il potenziale o ancora l’impegno non può essere considerato sufficiente?

In Italia c’è una fervida comunità scientifica che lavora sull’intelligenza artificiale. È facile incontrare ricercatori provenienti da praticamente ogni università italiana a conferenze internazionali. Tra l’altro quest’anno una molto importante, ACL, si terrà Firenze, mentre nel 2022 IJCAI si terrà a Bologna. Inoltre esiste un’associazione, l’AI*IA, che organizza conferenze annualmente e c’è un ecosistema di piccole aziende che creano prodotti e servizi di intelligenza artificiale con ottime competenze.

Dal punto di vista delle grandi aziende invece il discorso è più complesso: la mia esperienza personale prima di trasferirmi negli Stati Uniti mi ha lasciato un po’ scottato. Penso però ci sia un grande margine di miglioramento e che se sapremo attingere al valore aggiunto di diversità e originalità che l’ecosistema scientifico italiano così distribuito possiede e se riuscissimo ad attirare qualche azienda di caratura internazionale, come nel caso di Amazon a Torino, e a internazionalizzare i nostri ambienti di lavoro e le nostre prospettive di mercato, le cose potrebbero migliorare.

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Pubblicato il
12 feb 2019
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