Viacom - YouTube, screzi svelati

Viacom - YouTube, screzi svelati

La piattaforma di Google contrattacca: il nemico di oggi avrebbe tentato di acquistarla. E lo stesso colosso mediatico avrebbe caricato a scopo promozionale molti video coperti da copyright. Clip per cui ora accusa il portalone di sharing
La piattaforma di Google contrattacca: il nemico di oggi avrebbe tentato di acquistarla. E lo stesso colosso mediatico avrebbe caricato a scopo promozionale molti video coperti da copyright. Clip per cui ora accusa il portalone di sharing

Dopo tre anni di battaglie legali Viacom e YouTube arrivano a pubblicare le loro memorie che saranno utilizzate dal giudice per valutare un eventuale giudizio sommario sul caso. E da esse sembrano affiorare succosi dettagli del complesso rapporto tra le due aziende.

Il procedimento è iniziato nel 2007, quando Viacom ha trascinato YouTube in tribunale con l’accusa di favorire la visualizzazione di contenuti protetti da copyright in modo da attirare utenza. Contenuti che, affondava Viacom, potrebbero essere stati caricati dagli stessi dipendenti del colosso del video sharing. Google stessa, dal momento dell’acquisto del sito, non avrebbe fatto altro che assecondare tali comportamenti pregressi: YouTube, a parare di Viacom, non sarebbe che un “ladro legalizzato che permette di pubblicare materiale rubato”.

Oggi, Viacom, proprietaria tra l’altro di Parmount e MTV, accusa il Tubo di aver ospitato 62.637 video di sua proprietà e visti oltre 507 milioni di volte . E a prova della malafede e delle intenzioni scorrette dei responsabili della piattaforma porta come prova una serie di email scambiate tra i tre fondatori del sito, Chad Hurley, Steve Chen e Jawad Karim. Gli stralci di email sottoposti al giudice, che dovrebbero rappresentare la prova schiacciante per la risoluzione del caso, mostrerebbero i tre intenti a cercare esattamente un modo per aggirare la questione dei diritti d’autore e le conseguenti responsabilità: per evitare quelli che Hurley definirebbe in uno scambio di battute “i bastardi del copyright”.

Atteggiamenti sfrontati , se non proprio provocatori, nei confronti del diritto d’autore e delle possibili conseguenze delle violazioni sembrano peraltro trasparire da altri scambi epistolari dei tre: tutte frasi però, secondo i difensori, male interpretate perché prese fuori contesto. Per l’accusa, invece, delineerebbero chiaramente la strategia del Tubo e la sua volontà di usare il materiale di altri come volano di successo (parlerebbero, i tre, di “Grokster dei video online”) e l’intenzione di eliminarlo (eventualmente) solo una volta guadagnata grandezza e un ampio pubblico.

Ad oggi su YouTube vengono caricate 24 ore di filmati al minuto (raddoppiato il flusso di contenuti in meno di due anni e superata quota 2 milioni di minuti), cifre impressionanti anche se Google non sembra ancora aver trovato un solido modello di business per trasformarli in profitti, ma la questione della definizione delle responsabilità è ancora, evidentemente, discussa, così come non è stata ancora schiarita l’ombra sulle origini del successo del portalone, questione che insospettisce Viacom.

L’obiettivo finale dei tre fondatori era comunque, sempre secondo l’accusa, guadagnare abbastanza visibilità per ottenere milioni di dollari dalla vendita del sito. Scopo alla fine raggiunto, ma secondo Viacom, illegalmente.
La questione delle email, peraltro, è ancora più complicata perché Chad Hurley dichiara di aver perso il suo archivio email e di non ricordare nulla (si parla di “ripetuta amnesia”) dello scambio incriminato. Tutto il caso – peraltro – assume contorni quasi grotteschi: secondo YouTube, Viacom avrebbe preso in considerazione di comprare la piattaforma che pochi mesi dopo avrebbe accusato di “massiva e intenzionale violazione di diritti d’autore”. E tutta la vicenda sarebbe, in pratica, un malcelato esempio di volpe alle prese con l’uva.

YouTube accusa inoltre Viacom di aver non solo lasciato che utenti caricassero indipendentemente suoi video coperti da copyright come strategia pubblicitaria , ma di aver anche provveduto lei stessa “continuativamente e segretamente a caricare i suoi contenuti su YouTube, anche mentre pubblicamente si lamentava di tale presenza”. Per far questo avrebbe contattato non meno di 18 differenti agenzie di marketing, avrebbe provveduto a “degradare” i filmati in modo da farli apparire rubati e addirittura aperto falsi account YouTube con email false. Mandando incaricati ad effettuare l’upload da PC non direttamente collegabili con essa.

Questa strategia commerciale sarebbe poi stata portata avanti così efficacemente che la stessa Viacom non sembra sempre riuscita a distinguere tra i video caricati da utenti illecitamente e video inseriti per fini promozionali. Arrivando in alcuni casi a chiedere la rimozione di alcune clip, solo per chiedere poi mestamente a YouTube di riproporli.

La questione, tuttavia, esula dagli screzi tra i due contendenti e diventa di portata generale, nel momento in cui Viacom chiede di prendere in considerazione solo i fatti precedenti al maggio 2008, periodo in cui YouTube ha adottato Content ID , il sistema di notifiche e segnalazione attraverso cui si è impegnata a vigilare sul rispetto dei diritti d’autore dei contenuti caricati dai suoi utenti.

Viacom sembra così non tanto cercare l’attacco diretto, quanto cercare di imporre un modello di filtro dei contenuti obbligatorio per tutti . Si cerca, quindi, di stabilire ancora una volta che tipo di responsabilità abbiano le piattaforme popolate dagli utenti e la portata delle eccezioni stabilite dal Digital Millenium Copyright Act e che attualmente sembrano garantire l’operato dei sito che ospitano contenuti prodotti da altri.

Secondo YouTube “il DMCA (e il senso comune) riconosce che sono i proprietari dei contenuti, e non i servizi come YouTube, nella posizione migliore per stabilire se un video specifico è o meno autorizzato ad essere ospitato in una piattaforma di contenuti online”. E i precedenti giudizi dei tribunali statunitensi sembrano dar ragione a tale interpretazione. In particolare il caso Veoh, in cui il giudice ha scagionato l’host, ribadendo il principio secondo cui la piattaforma non è responsabile delle violazioni del diritto d’autore compiute dagli utenti.

Claudio Tamburrino

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Pubblicato il
19 mar 2010
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