Il santo graal della computazione, il sogno di ogni informatico. La computazione quantica, destinata a rivoluzionare il concetto stesso di calcolo binario, si sta trasformando lentamente da affascinante teoria a solida realtà: c’è chi ha cominciato a farci i conti, chi si è inventato anelli di diamante microscopici per generare i fotoni necessari alla trasmissione delle informazioni, ma all’appello mancavano ancora le strutture necessarie a custodire gelosamente e con precisione i preziosi qubit – vale a dire i tasselli fondamentali del calcolo quantistico.
Mancavano, perché ora pare che per tenere al sicuro le informazioni dell’elaboratore quantistico si sia trovata una soluzione: quale posto migliore per un elettrone – tipico recipiente del qubit – che un atomo? Nessuno, almeno secondo gli scienziati di Princeton , Oxford e del Lawrence Berkeley National Laboratory che hanno pubblicato un articolo al riguardo sull’ultimo numero di Nature : al calduccio in un atomo , il qubit è al sicuro dalle influenze esterne ma al contempo è facilmente in grado di interagire con l’universo fisico.
La soluzione adottata dai ricercatori consiste di un atomo di fosforo , composto dai suoi normali protoni, neutroni ed elettroni, infilato all’interno di un cristallo di silicio: mentre gli elettroni, che sono la parte più periferica e “condizionabile” dell’atomo vengono utilizzati per comunicare con l’esterno, le informazioni – quando disponibili – vengono invece archiviate all’interno del nucleo. Gli elettroni fanno insomma da messaggeri tra il nucleo e il mondo esterno, garantendo rapidità di trasmissione, mentre i nucleoni offrono storage a lungo termine con garanzia di coerenza.
Con “lungo termine” gli scienziati si riferiscono a intervalli di tempo compresi tra 1 e 4 secondi : una eternità, se paragonati ai pochi decimillesimi di secondo raggiunti fino ad oggi dai tentativi precedenti. Con questi tempi di storage dovrebbe essere possibile lavorare alla costruzione di un autentico registro di memoria quantica, in grado di operare all’interno di un più vasto elaboratore quantico ibrido basato sia sull’approccio quantistico che sulla più tradizionale elettronica digitale a base di silicio.
Se poi ci si fosse stufati del silicio e si volesse tentare qualche nuova strada , ecco tornare alla ribalta il grafene : un nuovo studio di Jiannis Pachos e Colin Benjamin dell’ Università di Leeds dimostrerebbe l’utilità della particolare incarnazione del carbonio nella generazione di qubit . Si parla, ancora una volta, di minuscoli anelli di resi superconduttivi grazie ad un drogaggio dei materiali o mediante il cosiddetto “effetto di prossimità”.
Secondo Pachos e Benjamin, grazie all’applicazione di una tensione su due para-giunture (più precisamente delle giunzioni di Josephson ) sarebbe possibile utilizzare l’anello per generare due qubit: il vantaggio nell’utilizzo del grafene garantirebbe inoltre una facile manipolazione delle giunture stesse grazie alla semplice applicazione di un flusso elettrico esterno. Ma soprattutto, a differenza degli studi precedenti, non sarebbe necessario introdurre elementi ferromagnetici per garantire il funzionamento della struttura.
Proprio come nel caso precedente, le caratteristiche dell’anello di grafene dei due ricercatori britannici permetterebbero un’ ottima difesa contro la decoerenza , vale a dire lo spauracchio della computazione quantistica. Gli scienziati si dicono convinti che questa teoria possa portarli lontano, e hanno avviato ulteriori studi per valutare la possibilità di utilizzare diversi anelli per costruire autentiche porte logiche come quelle già impiegate nell’elettronica digitale tradizionale.
Luca Annunziata