Web – Volete una bella metafora della Internet degli ultimi tempi? Una immagine da usare come sfondo del vostro desktop? Un bel paio di manette. Uno dei verbi più coniugati in rete oggigiorno sembra essere to sue , ovvero “far causa”. Fateci caso, lo si legge dappertutto.
E ‘ in atto una offensiva senza precedenti, specie nelle questioni inerenti al copyright su Internet, che si fa forte di alcune delle nuove normative statunitensi in materia, prima fra tutte il DMCA (Digital Millenium Copyright Act). Una guerra dichiarata che mescola il tentativo di tutela di giuste cause, a irresistibili voglie di limitare la libertà di espressione e la stessa esistenza sul Internet di qualsiasi forma di contenuto che sia “alternativo” allo strapotere di pochi.
Se vi chiamate Barbieri e volete aprire un sito web (è capitato ad un editore di libri religiosi) aspettatevi le minaccie dei proprietari del trademark della Barbie che si avventano su tutti coloro che anche solo nominano in rete la loro fortunatissima bambolina. E ‘ un atteggiamento invasivo che non si limita al web: nei giorni scorsi un barcaiolo del nord Italia ha dovuto cambiare il nome della sua barca da “Speedy Gonzales” a “Speedy” su ingiunzione della Warner Bros. Sembra uno scherzo ma non lo è.
Follie del genere sono ormai all’ordine del giorno e i casi di contenzioso legale si moltiplicano, travolgendo ogni forma di buon senso. La Motion Picture Association of America, la associazione dei produttori cinematografici americani, in prima linea da parecchi mesi nel tentativo di bloccare i software che leggono il contenuto dei DVD, è arrivata al punto di citare in giudizio il sito di 2600, una nota rivista di hacking, semplicemente perché conteneva links ad altri siti nei quali era disponibile il DeCSS (il software che consente di leggere il contenuto dei DVD sotto linux). Divieto di link, quindi, a piene mani e per tutti, a suon di ingiunzioni che attraversano il pianeta senza risparmiare nessuno e che sono diventate ormai, in casi come questo, veri e propri odiosi divieti di parola.
Curioso poi che i link di 2600 siano meritevoli di persecuzione da parte dei legali della MPAA, mentre quelli del New York Times on the web, che in data 28 aprile in un articolo sul DeCSS ha fornito analoghe coordinate su dove reperirlo, invece non lo siano.
In questa battaglia al massacro che vede protagonisti rock band (i Metallica), start up (Napster e mp3.com), discografici e grandi mayor cinematografiche, poteva mancare Microsoft? Ovviamente no.
Poiché anche in questo campo sembra sia in atto la gara a chi fa peggio, la casa di Redmond si candida in questi giorni a un posto sul podio con la faccenda Kerberos. Storia complicata e per addetti ai lavori, ma pur sempre grave e indicativa del clima che si respira in rete oggi. La racconto in due parole sperando di non commettere errori tecnici troppo grossi.
Kerberos è un sistema di autenticazione open source che Microsoft ha introdotto in Windows 2000 alla sua maniera. Ciò significa che dopo aver da due anni a questa parte partecipato al gruppo di sviluppo del software promettendo ai programmatori che lo hanno inventato di renderlo disponibile liberamente nelle università, Microsoft se ne è impossessata fornendolo di estensioni proprietarie e non documentate, allo scopo di renderlo non compatibile con i sistemi Unix. Microsoft ha, in altre parole, preso uno standard, lo ha blindato e lo ha dichiarato proprio. Gli sviluppatori di Kerberos hanno così deciso di pubblicare su Slashdot un atto di accusa in cui descrivono questo abuso. Sulla rivista sono poi comparsi commenti e codici di Kerberos con le specifiche Microsoft. Le stesse che la casa di Bill Gates intendeva mantenere segrete.
L’atto finale e prevedibile (vedi notizia di oggi) è stata la richiesta di Microsoft all’editore di Slashdot di censurare tali contenuti che sono a suo dire protetti da copyright. I posting in questione sono attualmente ancora su Slashdot (insieme alla lettera di Microsoft giunta all’editore). Il giornale pare abbia deciso di non censurare alcunché. La storia di Kerberos sta facendo il giro di tutti i media che contano: ne hanno parlato Salon, CNET, Washington Post, Wired e tanti altri, e quasi sempre per stigmatizzare il comportamento lesivo di Microsoft.
A tutti coloro che chiedono commenti al riguardo il portavoce del gigante del software risponde alla stessa imbarazzata maniera: “Microsoft has no comment at this time”.