Diritto all'oblio, i reati gravi non si dimenticano

Diritto all'oblio, i reati gravi non si dimenticano

Il Garante Privacy concorda con Google e nega a un cittadino italiano la deindicizzazione di una manciata di URL che danno conto di certi trascorsi giudiziari per reati contro la Pubblica Amministrazione
Il Garante Privacy concorda con Google e nega a un cittadino italiano la deindicizzazione di una manciata di URL che danno conto di certi trascorsi giudiziari per reati contro la Pubblica Amministrazione

Il diritto all’oblio concorre naturalmente con il diritto dei cittadini ad informarsi, e ci sono delle vicende di cui è bene non dimenticare: il Garante della Privacy ha respinto un ricorso formulato da un cittadino italiano che avrebbe voluto vedere deindicizzati alcuni risultati di ricerca corrispondenti al proprio nome, chiamato in causa nell’ambito di un’indagine per corruzione e truffa nella Pubblica Amministrazione.

Il protagonista del caso è un ex consigliere comunale, coinvolto in una vicenda giudiziaria avviata dieci anni fa: l’uomo, ricostruisce l’Authority, era coinvolto “in associazione delittuosa con altri e con ruolo non da comprimario, in reati contro la Pubblica amministrazione, quali la corruzione e la truffa, perpetrati a danno della sanità regionale negli anni 2004-2006, mediante l’illecita sottrazione di ingenti risorse finanziarie pubbliche”. Nel 2012 la vicenda giudiziaria per l’uomo era giunta a conclusione con una sentenza di patteggiamento e con una pena interamente coperta da indulto e, nel frattempo, il cittadino si era dimesso dalla propria carica per intraprendere una carriera nel settore immobiliare privato. In tempi più recenti, però, quello che per l’uomo rappresentava ormai un caso chiuso era riemerso sulle pagine delle cronache giudiziarie , richiamato da fatti d’attualità relativi a inchieste in materia di corruzione. È così che il cittadino si è rivolto a Google, chiedendo la deindicizzazione di una serie di URL che il motore di ricerca restituisce all’inserimento del suo nome come parola chiave.

Google, sulla base di meccanismi disposti all’indomani della dibattuta sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e ormai consolidati , ha analizzato le istanze dell’uomo e ha stabilito di non procedere alla deindicizzazione, eccezion fatta per tre URL segnalati dall’utente, che già nel mese di giugno non figuravano più nella SERP. È così che il cittadino italiano si è rivolto al Garante Privacy per presentare ricorso.

Nell’esporre le proprie motivazioni al cospetto del Garante, il ricorrente ha fatto leva sul fattore tempo , vale a dire la lontananza nel passato dei fatti in cui è stato coinvolto, sulla mancanza di un interesse pubblico rispetto alle notizie relative alla propria persona, avendo abdicato all’incarico nell’amministrazione comunale. La mancata rimozione degli URL, sottolineavano i legali del ricorrente, avrebbe inferto danni “all’immagine, alla riservatezza e alla vita privata e lavorativa” dell’uomo, che riteneva dunque di dover essere tutelato dall’adempimento da parte del motore di ricerca del suo esercizio del diritto all’oblio.

L’Authority, che in passato si è mostrata spesso in linea con l’orientamento del motore di ricerca, ha confermato la posizione di Google, negando all’uomo la deindicizzazione .
Il Garante, nella propria analisi , ha ricordato che l’elemento del trascorrere del tempo “incontra un limite quando le informazioni per le quali viene invocato risultino riferite a reati gravi”: considerato che la vicenda giudiziaria per il ricorrente si è conclusa nel 2012, quindi in tempi relativamente recenti; considerata la “particolare gravità” dei reati ascritti al soggetto ricorrente e considerato che l’attualità di certi URL testimonia il vivo interesse pubblico rispetto agli intrighi che affliggono la sanità a livello regionale, l’Authority italiana ha ritenuto infondata la richiesta di rimozione degli URL.

Gaia Bottà

Link copiato negli appunti

Ti potrebbe interessare

Pubblicato il
13 dic 2016
Link copiato negli appunti