Internet Tax, i commenti

Internet Tax, i commenti

Mantellini sulla percezione di quanto accaduto - Scorza: il problema è l'ignoranza, non questo ddl - Cammarata: la questione è un'altra - Spinelli: Internet, questa sconosciuta
Mantellini sulla percezione di quanto accaduto - Scorza: il problema è l'ignoranza, non questo ddl - Cammarata: la questione è un'altra - Spinelli: Internet, questa sconosciuta

Massimo Mantellini: la percezione di quanto accaduto

Io ormai non mi meraviglio più di niente. Se mi chiedete se sia possibile che una istituzione spenda tempo, culture, inchiostro e consulenze per partorire decreti legge senza senso, vi risponderò che sì, questo è possibile, che non è la prima volta che accade e non sarà nemmeno l’ultima. Mi riferisco ovviamente al progetto di legge di cui Punto Informatico ha dato notizia venerdì scorso presentato dal sottosegretario Ricardo Franco Levi (portavoce di Romano Prodi) sulla iscrizione al ROC dei siti web con finalità editoriale. Volendola dire tutta fin da subito, è il processo legislativo stesso che in questo paese è ormai corrotto fin dalla radice e tutto ciò non riguarda ovviamente solo le cose della rete. Il DDL in questione serve solo a dimostrarlo, se ce ne fosse bisogno, per l’ennesima volta. Perché è indubbio che in Italia si legiferi troppo spesso per sostenere interessi particolari (quasi sempre i medesimi tra l’altro) ed è proprio questo che rende intrinsecamente fragili e talvolta francamente vessatori molti dei provvedimenti emessi.

Le “leggi per qualcuno” difficilmente si armonizzeranno con gli interessi generali dei cittadini e il grado di noncuranza verso una qualche compatibilità in questo senso è ai minimi storici. Così accade che la convenienza della comunità (in questo caso quella di centinaia di migliaia di italiani che aggiornano le proprie pagine web) si trasformi in un fastidioso optional che ostacola il perseguimento degli interessi di bottega di alcuni. Lascio alla vostra immaginazione chi possano essere i beneficiari di un percorso di legge simile aggiungendo che – volendo essere cattivi – spesso nemmeno dentro questo deteriore ma in fondo comprensibile meccanismo si spiegano certe brutture di legge, che talvolta vanno archiviate come semplici esempi di patente ignoranza.

Qualsivoglia siano le aspettative di un decreto legge del genere, siano esse quelle di tutelare la specificità dell’informazione professionale, o di chiarire alcuni principi nei reati di diffamazione o anche solo il tentativo infantile di raggranellare qualche soldo supplementare dalla rete Internet, non è di questo che vorrei dirvi oggi, sottoscrivo a tal proposito semplicemente l’editoriale che Paolo De Andreis ha scritto venerdì e molti dei commenti che ne sono seguiti.

Quello che invece vorrei fare oggi è mettere l’accento su un paio di questioni entrambe, a Dio piacendo, di segno positivo.

La prima è che è possibile (lo scrivo piano) che questo brutto decreto venga alla fine accantonato. Me lo dicono persone bene informate e ormai lo dicono perfino molti politici della maggioranza (sempre che quella di questi giorni lo sia ancora) ora che dopo la denuncia nata in rete il bubbone è per una volta scoppiato. Come dicono i professionisti del palazzo sembra, incrociando le dita, non esistano le condizioni politiche per sostenerlo. E tuttavia vale la pena ricordare come gran parte dell’arco parlamentare in una occasione molto simile nel 2001 votò a favore di una legge per l’editoria che conteneva anch’essa norme altrettanto discutibili sui “prodotti editoriali”.

Il perseverare diabolico della casta degli editori non sembra oggi in grado di far diventare legge un decreto del genere ma è comunque significativo che le definizioni del 2001 di prodotto editoriale siano, nella maggioranza dei casi andate del tutto disattese sul piano pratico, pur restando nel contempo purtroppo valide giuridicamente.

Il secondo elemento di novità che in queste ore sembra assai evidente è che pare essere mutato l’atteggiamento dei media nei confronti di notizie simili. Argomenti del genere fino a poco tempo fa faticavano molto ad uscire dalla rete per finire sui grandi quotidiani. Oggi per fortuna e per merito della stampa (anche se Aldo Fontanarosa sui pezzi che ha scritto al riguardo per Repubblica mostra, come è prassi consolidata da quelle parti, un allergia assoluta alla citazione di qualsiasi fonte) le cose di Internet raggiungono con maggiore facilità il grande pubblico. Io stesso che venerdì scorso ero all’estero, sono stato raggiunto da numerose telefonate ed email di giornalisti di grandi quotidiani che mi domandavano un parere sulla questione. Una cosa prima di ora mai vista.

Dico questo perché nel 2001 in una situazione analoga non bastarono oltre 50mila firme ad una petizione che attraversò tutta Internet perché i media decidessero di occuparsi minimamente della questione dei prodotti editoriali, di quali pagine web lo siano e quali no e di quali limiti porre alla libertà dei cittadini di essere loro stessi protagonisti del flusso informativo senza patetici e strumentali distinguo.

E insomma già allora, esattamente come oggi, si trattava di argomenti importanti che coinvolgevano moltissimi cittadini. Cosa è mutato da allora? Internet è diventata una parte della vita di tutti molto di più di quanto non lo fosse cinque anni fa e l’attenzione che riceve sui grandi media ne è la conseguenza. E questo, specie per una notizia che coinvolge pesantemente gli interessi degli editori, è certamente una buona cosa che merita di essere sottolineata.

Dopo tutto questo tripudio di buone notizie, che Ricardo Franco Levi sulla questione si senta in dovere di rispondere, con una irrituale lettera aperta pubblicata sul sito web del governo a Beppe Grillo e non alla comunità delle migliaia di persone che hanno in questi giorni protestato, mi pare invece la dica lunga sulla percezione che si continua ad avere della rete in Italia nelle stanze delle politica.

Guido Scorza: il problema è l’ignoranza, non questo ddl

Il DDL sulla riforma dell’editoria approvato il 12 ottobre scorso dal Consiglio dei Ministri ha sollevato in Rete un vespaio di polemiche ed è stato letto da molti come una pericolosa minaccia alla libertà di informazione in Rete. Personalmente ritengo che il Disegno di Legge Levi-Prodi sia scritto male e pensato peggio, da una penna informaticamente analfabeta e con una scarsa conoscenza della vigente disciplina in materia di stampa ed editoria.

Tuttavia non credo che ci sia così tanto da preoccuparsi per il suo contenuto né che si possa individuare in esso una seria minaccia al futuro dell’informazione in Rete.

Certo la lettera e lo spirito del disegno di legge vanno nella direzione di burocratizzare l’attività editoriale anche telematica a scopo di lucro e non, e questo, può, in linea di principio, urtare la sensibilità del popolo della Rete sin qui abituato ad utilizzarla per la diffusione di ogni genere di contenuti, senza formalità ed adempimenti di sorta.

Il DDL demanda ad un Regolamento, da adottare da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni, l’individuazione dei termini e delle modalità per l’iscrizione dei soggetti che esercitano un’attività editoriale nel ROC (Registro unico degli operatori della comunicazione). Il legislatore “scopiazzando” il vecchio testo della L. 62/01 – la vecchia/nuova riforma dell’editoria – non se ne è neppure accorto ma, in realtà, il Regolamento già esiste (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni – Delibera n. 236/01/CONS. – Regolamento per l’organizzazione e la tenuta del registro degli operatori di comunicazione – GU 30 maggio 2001 n. 150 – SO n. 170) e, allo stato, non contempla tra i soggetti obbligati i titolari di blog o di altri analoghi prodotti editoriali amatoriali. Certo il Regolamento potrebbe essere modificato ma riesce difficile credere che l’AGCOM vorrà mettersi sulle spalle il fardello della gestione di un Registro nel quale potrebbero, in ipotesi, essere tenuti ad iscriversi ed a cancellarsi migliaia di soggetti ogni giorno.

In ogni caso, sotto tale profilo, mi sembrerebbe opportuno rinviare polemiche e preoccupazioni al giorno in cui, eventualmente, l’AGCOM dovesse stabilire termini e modalità di registrazione nel ROC incompatibili con le dinamiche dell’informazione in Rete.

Al riguardo, d’altra parte, mi sembra opportuno ricordare – perché ancora una volta l’estensore del DDL sembra essersene dimenticato – che, attualmente, l’art. 7 del D.Lgs. 70/2003 prevede che “La registrazione della testata editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62”.

Tale norma non appare destinata ad essere abrogata.

Il DDL, d’altra parte, non dice – come invece è stato scritto da molte parti e come Grillo ha urlato sul suo blog – che ai prodotti editoriali telematici si applicherà la disciplina sulla stampa e che, quindi, ad esempio, per gestire un blog servirà un giornalista come Direttore Responsabile. Una previsione di questo genere – fortunatamente in termini tanto ambigui da non aver mai ricevuto concreta applicazione – era invece contenuta nella vecchia L. 62/01 di cui, tuttavia, il DDL vorrebbe abrogare i primi 11 articoli.

Sono anche io convinto con i più, che il Governo abbia fatto una pessima figura con l’approvazione del DDL Editoria, ma non perché esso comprometta il futuro dell’informazione telematica quanto, piuttosto, perché ancora una volta ha dato prova di un’imperdonabile ignoranza delle questioni e dinamiche della Rete, un’ignoranza che nella società dell’informazione rischia di porre il Paese ai margini del Cyberspazio, facendogli perdere le grandi opportunità che le nuove tecnologie offrono.

Non c’è dubbio, tuttavia, che in termini di libertà di informare ed essere informati è ben più grave – ed anzi drammatico – il digital divide che continua a caratterizzare questo Paese a causa di una pessima attenzione al mercato delle telecomunicazioni da parte del legislatore e dell’Autorità Garante, che non il DDL sull’editoria.

Chi non accede all’infrastruttura di Rete è destinato a rimanere escluso dalla società dell’informazione mentre chi vi accede – sebbene previa iscrizione in un polveroso registro come il ROC – in fondo è solo il cittadino di un Paese con un livello di burocrazia superiore alla media, sia che si tratti di Internet sia che si tratti di Sanità sia che si tratti, più semplicemente, di rapporti con la Pubblica Amministrazione.

È per questo che il DDL sull’Editoria, francamente, non riesce a farmi paura mentre mi fanno tanta paura i nostri Governanti tanto lontani dalle cose della Rete.

Intendiamoci, ci sono battaglie che si combattono anche solo per principio e quella contro un virtualissimo – almeno allo stato – obbligo di registrazione dei prodotti editoriali telematici nel ROC potrebbe esserlo ma, anche in questo caso, io non la combatterei.

Sinceramente non vedo nulla di strano nell’idea che prima di rivolgere il mio pensiero ad un pubblico di milioni di persone, mi si chieda di lasciare il mio nome, cognome e poche altre informazioni annotate da qualche parte. Nessuno le utilizzerà mai – anche perché la disciplina sull’editoria è fondamentalmente una regolamentazione di tipo antitrust e di finanziamento – ma se anche lo facessero, non potrebbero che chiamarmi a rispondere di ciò che ho scritto, cosa che ritengo necessaria, utile ed opportuna per il futuro della Rete.

Manlio Cammarata: la questione è un’altra

C’è una Internet Tax nel disegno di legge di riforma dell’editoria approvato definitivamente dal governo pochi giorni fa? Il balzello sarebbe conseguenza dell’obbligo di iscrizione al registro degli operatori di comunicazione (ROC) per i siti che il DDL definisce come “prodotti editoriali”. Cioè “qualsiasi prodotto contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di divulgazione, di intrattenimento, che sia destinato alla pubblicazione, quali che siano la forma nella quale esso è realizzato e il mezzo con il quale esso viene diffuso”, come recita il primo comma dell’articolo 2. Il secondo comma precisa che “Non costituiscono prodotti editoriali quelli destinati alla sola informazione aziendale, sia ad uso interno sia presso il pubblico”. Dunque l’imposizione non riguarderebbe, oltre ai siti aziendali, quelli di commercio elettronico e simili. Mentre blog e affini ricadrebbero senz’altro tra quelli soggetti all’iscrizione al ROC. Il che è forse ancora più grave: si tratterebbe infatti di una inaccettabile “Information Tax”, in ultima analisi di una “tassa sulla manifestazione del pensiero”. Con buona pace dell’articolo 21 della Costituzione.

Tuttavia anche questa ipotesi non mi sembra realistica, perché il testo del DDL lascia aperte diverse possibilità, anche senza considerare le dichiarazioni del suo estensore, e di Pietro Folena, rilasciate a Repubblica.it poche ore dopo che era scoppiato il caso.

Per capire i termini della questione si deve considerare che l’Italia è l’unico Paese democratico in cui la professione di giornalista non è libera. Anzi, chi si professa giornalista senza essere iscritto all’Ordine inventato da Benito Mussolini rischia addirittura una condanna penale.

Da anni si discute di abolizione dell’Ordine dei giornalisti, o almeno di una sua profonda riforma. E il disegno di legge predisposto dal sottosegretario Levi sembra che vada in questa direzione, perché mette sullo stesso piano l’informazione professionale e quella “libera” dell’internet. Ma lo fa in maniera assai confusa, sostituendo l’obbligo di registrazione delle testate periodiche nei registri della stampa tenuti dai tribunali con l’iscrizione al ROC. E potrebbe imporre l’iscrizione al ROC anche per i prodotti editoriali realizzati “in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative”, come recita l’articolo 5 del DDL (per approfondimenti si veda l’ articolo che ho pubblicato il 24 settembre su Manlio Cammarata reporter).

Ma, attenzione: il disegno di legge prevede che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni adotti un regolamento per “la definizione dei criteri di individuazione dei soggetti e delle imprese tenuti all’iscrizione”. Questo significa che l’AGCOM potrebbe esentare i siti di informazione non professionale (oggi l’obbligo di iscrizione riguarda solo le testate periodiche). Ma non si può demandare a un regolamento una questione di tale portata.

Il testo della legge che sarà approvata dal Parlamento dovrà indicare con chiarezza i limiti dell’obbligo di iscrizione al ROC. La previsione di un obbligo generale di iscrizione per qualsiasi sito “contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di divulgazione, di intrattenimento” si tradurrebbe in una vera e propria schedatura di tutti coloro che, in Italia, si avvalgono del diritto costituzionale di manifestare le proprie opinioni. Il problema non è dunque la presunta Internet Tax, che nel disegno di legge non c’è. È il rispetto dell’articolo 21 della Costituzione. Scusate se è poco.

Luca Spinelli: Internet, questa sconosciuta

Il disegno di legge sull’editoria è un caso emblematico del rapporto fra politica italiana ed internet.

Dopo una primissima reazione impettita tipica della politica in carta bollata e auto blu, giunta da Ricardo Franco Levi (tra i padri del provvedimento), è arrivata via via la smentita un po’ più sensata di tutti i principali esponenti della maggioranza. Antonio di Pietro sul suo blog già da venerdì minacciava addirittura le propria uscita dal governo in mancanza di modifiche al testo. Il Ministro Gentiloni, nel pomeriggio di sabato, ammetteva le proprie ” parziali colpe ” e parlava di ” errore “, ” riconosciuto l’errore, si tratta ora di correggerlo “. Semplice, no?

Due Ministri della Repubblica italiana che ammettono più o meno candidamente di non aver letto un provvedimento da loro stessi approvato, è già di per sé una scena perfetta per una commedia di Totò e Peppino. Ma l’aspetto più paradossale è un altro, e a molti sembra sfuggire: un disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri in queste condizioni dimostra una profonda e preoccupante inadeguatezza della politica italiana verso temi cruciali della modernità e del progresso tecnologico.

Chiunque abbia scritto un disegno di legge del genere è una persona che non trascorre più di quindici secondi alla settimana su internet e, quando lo fa, probabilmente è un malware che naviga al posto suo. È improbabile pensare, come annuncia Beppe Grillo sul suo blog, che si tratti di una legge-bavaglio per bloccare la libertà di informazione. Come è improbabile pensare che sia stato un tentativo ben nascosto nelle ferie d’agosto di inasprire le pene per i reati a mezzo stampa. Sarebbe stato un tentativo così maldestro che anche la Banda Bassotti avrebbe preso ufficialmente le distanze. E sarebbe anche stato quasi un bene, se si fosse trattato di un maldestro colpo di mano: avremmo potuto dire “ci hanno provato“, “gli è andata male”.

Ma il problema è molto più profondo e, se possibile, più grave. L’obbligo previsto per la quasi totalità dei siti internet italiani di iscriversi al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) è comico, più che truffaldino. Immaginate svariate centinaia di migliaia di richieste pervenire nel giro di qualche mese agli sfigatissimi funzionari del ROC, sarebbe la paralisi totale: sarebbe l’infarto del ROC.

E anche se nell’iter parlamentare i siti destinatari della norma diminuissero a cifre più ragionevoli, ci sarebbe comunque una sollevazione popolare qualora fosse messa a rischio la libertà di espressione. E infine: chi dovrebbe occuparsi di farlo rispettare un obbligo del genere? C’è qualcosa di paradossale in tutto ciò, di farsesco.

Per questo, non si tratta di un disegno di legge scritto da politici furbetti, né di un complotto di palazzo mal riuscito: le stesse reazioni lo dimostrano, imbarazzate, stupite. Si tratta di una legge scritta da quegli stessi politici che aprono il loro blog perché “tanto ce l’ha anche Beppe Grillo e ha fatto successo coi cittadini”, e che poi si trovano due miserrimi commenti al mese sui propri post. Si tratta di un disegno di legge scritto da quei politici che ci rimangono male quando ricevono migliaia di commenti offensivi solo perché un comico ha lanciato un supposto ” anatema contro di loro “. Incapaci di leggervi un malessere dietro, che va ben oltre il semplice, e deprecabile, insulto da bar dello sport che l’anonimato di internet permette.

Politici che, come molti anziani professori dell’università italiana, fanno una fatica terribile a reinventarsi e collocarsi in un mondo che, anche solo generazionalmente, non gli appartiene e non riescono a capire. E invece di reagire a mente aperta, si riparano impauriti dietro a parole-contenitori come “populismo” o “anti-politica”, e inaspriscono le pene per i reati a mezzo stampa commessi in quell’insondabile etere che arriva diretto dal diciottesimo secolo. E si chiudono in caste e corporazioni. Politici che hanno lavorato per l’Italia – chi onestamente, chi meno – ma che, come moltissimi loro coetanei della società civile, sono spaesati e a disagio in un mondo tecnologico che si modifica e cambia molto più in fretta di loro, e che li spaventa.

Nessuna voce si è alzata per modificare quest’assurdo provvedimento (che ha le sue radici nel lontano 2003): né da sinistra, né da destra, in un silenzio assordante. C’è voluto il sito di civile.it e il volano di un giornale online indipendente, perché qualcuno si accorgesse di quello che stava succedendo. C’è voluta la voce di internet, data a coloro che internet non riescono a comprenderla, data a coloro che hanno inventato e smontato Italia.it.

Questo disegno di legge non è figlio della furbizia o dell’inganno di alcuni, ma della paura e dell’inadeguatezza di troppi, e probabilmente sarebbe stato meglio il contrario.

Difficile dire se l’attuale classe dirigente abbia la forza o le capacità di superare questi limiti, ma se non avverrà, l’Italia rischia di perdere un treno molto, molto importante: quello della modernità.

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Pubblicato il
22 ott 2007
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