Meta è alle prese con le rivelazioni scottanti di una sua ex dipendente, Sarah Wynn-Williams. “Careless People“, il suo libro bomba, è un’onda d’urto che rischia di far crollare la facciata patinata del colosso dei social. Tra le pagine, si nascondono storie di molestie (subite anche dall’attuale capo delle politiche Joel Kaplan), abusi di potere e sogni infranti.
Il libro scomodo di un’ex dipendente Meta
Meta non l’ha presa bene e ha portato la questione davanti a un arbitro, che ha emesso una decisione a suo favore. Secondo l’arbitro, Wynn-Williams deve smettere di fare dichiarazioni denigratorie contro Meta e i suoi dipendenti, cessare la promozione del libro e, per quanto possibile, bloccarne la pubblicazione e ritirare le affermazioni già fatte.
Ma c’è un problema: non è chiaro se l’arbitro abbia davvero l’autorità di fermare la pubblicazione del libro o di impedire la creazione di future versioni. Al momento, infatti, il volume è in vendita su Amazon e Barnes & Noble. Inoltre, l’avvocato che rappresenta Macmillan e Flatiron, le case editrici che hanno pubblicato il libro, ha contestato la giurisdizione dell’arbitro.
Secondo il portavoce di Meta, Andy Stone, la decisione dell’arbitro “conferma che il libro falso e diffamatorio di Sarah Wynn-Williams non avrebbe mai dovuto essere pubblicato“. Stone accusa la donna di aver “deliberatamente nascosto l’esistenza del suo progetto di libro e di aver evitato il processo standard di verifica dei fatti del settore per correre sugli scaffali dopo aver aspettato otto anni“.
Insomma, una corsa contro il tempo per mettere a tacere una voce scomoda e potenzialmente imbarazzante per l’azienda. Ma la domanda è: può davvero un arbitro, su richiesta di una multinazionale, censurare un libro e limitare la libertà di espressione di un autore?
Una questione di principio
Al di là del merito delle accuse contenute nel libro, che andranno verificate nelle sedi opportune, il caso solleva una questione di principio. Può un’azienda usare gli strumenti legali a sua disposizione per far tacere una ex dipendente che racconta la sua esperienza, per quanto scomoda possa essere?
E ancora: qual è il confine tra un’azienda che protegge il suo buon nome e una persona che semplicemente vuole dire la sua verità?