USA, il search non diffama

USA, il search non diffama

Aveva presentato il suo nome come un brand e come tale voleva che fosse tutelato. Anche fra i risultati di ricerca. Ma un giudice ha detto no
Aveva presentato il suo nome come un brand e come tale voleva che fosse tutelato. Anche fra i risultati di ricerca. Ma un giudice ha detto no

Un motore di ricerca non è tenuto a tutelare la reputazione delle persone. Un giudice statunitense ha detto no alle richieste di risarcimento avanzate all’inizio dell’anno da tale Beverly Bev Stayart, che aveva puntato il dito contro Yahoo, reo, secondo il suo parere, di aver gettato fango sulla sua immagine con informazioni diffamatorie, attraverso i risultati di ricerca del suo nome, Bev.

La corte distrettuale del Wisconsin ha smontato la querelle legale tra la donna e il search engine . Stayart, animalista convinta e appassionata di geologia, si era sempre vantata di una laurea prestigiosa, di importanti contatti professionali e una mente acuta e sensibile. L’unico lato che avrebbe voluto mostrare di sé online era quello accademico, mostrato ai giudici come fitto di intellettuali post su siti terzi. In seguito, si era ritrovata ad avanzare un totale di nove richieste legali, tre per ognuno dei motori che avevano utilizzato il suo nome su Internet senza autorizzazione.

Yahoo, Overture e Various erano stati accusati da Bev Stayart per aver fornito, attraverso i risultati di ricerca del suo nome, una serie di link collegati a siti pornografici , miracolose farmacie online oltre a servizi di dating a sfondo sessuale. Un’infamia che la donna non poteva sopportare: ne avrebbe risentito la sua popolarità in ambiti accademico-umanitari, ne avrebbe risentito il brand che avrebbe voluto far corrispondere al suo nome. Bev Stayart come un marchio registrato, dunque, passibile di violazione e abusi.

“Stayart non è coinvolta nel marketing commerciale della sua identità – si può leggere nel documento ufficiale della corte – e non dichiara alcun intento di commercializzarla”. La donna, in pratica, non può avanzare richieste soltanto perché non gradisce i risultati che provengono dal suo nome online e questo comunque non porterebbe ad una violazione del marchio da parte degli accusati. “Stayart sostiene che il suo nome abbia un valore commerciale – ha continuato il giudice statunitense – ma appare chiaro che le sue richieste sono state sollevate sulla base di una personale avversione verso il collegamento del suo nome con immagini pornografiche”. Di cui i motori di ricerca non sono responsabili.

Mauro Vecchio

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Pubblicato il
4 set 2009
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