USA, quando la cifratura è vana

USA, quando la cifratura è vana

Inutile proteggere i propri dati se le autorità costringono gli utenti a consegnare le chiavi di accesso. Basta ammettere di avere la possibilità di decifrare per essere obbligati a farlo
Inutile proteggere i propri dati se le autorità costringono gli utenti a consegnare le chiavi di accesso. Basta ammettere di avere la possibilità di decifrare per essere obbligati a farlo

Digitare una password, la password che protegge i documenti di un sospetto dallo sguardo delle autorità, non costituirebbe in assoluto un atto di auto-incriminazione: le autorità possono chiedere all’imputato di scodellare la chiave di accesso quando sono a conoscenza del fatto che ciò che è celato da cifratura costituirà una prova del reato.

A stabilirlo è stata la Corte Suprema dello stato del Massachusetts, chiamata a valutare il caso che ha per protagonista tale Leon I. Gelfgatt, avvocato che nel 2009 è stato accusato di portare avanti delle operazioni truffaldine con dei mutui immobiliari. Le autorità avevano condotto delle perquisizioni presso la sua abitazione e avevano rilevato come i file stoccati sui computer e sugli hard disk dell’uomo fossero inaccessibili.

Gelfgatt era stato interrogato , aveva ammesso di aver lavorato con l’agenzia di servizi finanziari Baylor Holdings, aveva affermato di possedere più di un computer presso la sua abitazione e di aver usato queste macchine per comunicare con l’agenzia con cui lavorava. “Tutto è cifrato e nessuno riuscirà ad accedervi”, aveva assicurato l’uomo, nemmeno la polizia: Gelfgatt non si era inoltre mostrato disposto a collaborare, dichiarando di avere la possibilità di decifrare i documenti , protetti con DriveCrypt Plus, ma di non avere la benché minima intenzione di farlo . Nel frattempo, con il proseguire delle indagini, si erano raccolte delle prove dell’attività fraudolenta di Baylor Holdings, con cui l’uomo lavorava.

Secondo la Corte Suprema, Gelfgatt può essere obbligato dalla giustizia a fornire le chiavi d’accesso ai propri documenti, poiché l’accesso ai documenti non aggiungerebbe a quanto già noto alle forze dell’ordine degli elementi di novità tale da far scattare per il cittadino le protezioni garantire dal Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che difende un imputato dalla possibilità di auto-incriminarsi rivelando prove e informazioni compromettenti. Gelfgatt – così sostengono i giudici della corte suprema del Massachusetts – ha già rivelato loro che gli strumenti tecnologici che possiede contengono le prove della sua relazione con Baylor Holdings, li ha già informati del fatto che potrebbe decifrarli: la password che consente di accedere al contenuto degli hard disk non costituirebbe più una testimonianza, perché “il convenuto starebbe semplicemente fornendo al governo informazioni già note”. Informazioni già note, ma evidentemente non superflue , poiché la Corte Suprema ha stabilito che Gelfgatt dovrà fornire la password.

L’imputato, sbandierando il proprio diritto alle tutele previste dal Quinto Emendamento, ha in sostanza fornito gli elementi necessari alla Corte per stabilire che l’imputato si fosse già auto-incriminato, rivelendo informazioni importanti riguardo al suo caso. Ma non tutti gli osservatori si trovano d’accordo : le autorità avrebbero confuso le informazioni relative al contenitore (ciò che Galfgatt ha dichiarato alle forze dell’ordine) con le informazioni relative al contenuto , di cui solo Gelfgatt, prima che i documenti siano decifrati, è a conoscenza.
Anche l’avvocato di Gelfgatt, Stanley Helinski, non si trova d’accordo : “Chiedendo a un sospettato di frugare nella propria mente e accedere all’informazione significa violare i diritti previsti dal Quinto Emendamento”. Un rischio di violazione che, declinato in ambiti che coinvolgano la tecnologia, ha suscitato presso i tribunali statunitensi le posizioni più variegate .

Gaia Bottà

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Pubblicato il 27 giu 2014
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