Contrappunti/ Il Censis dà i numeri

Contrappunti/ Il Censis dà i numeri

di M. Mantellini - Nel rapporto del centro studi c'è la definitiva conferma di uno spaventoso ritardo nell'ammodernamento di questo Paese. Un problema personale, culturale, collettivo
di M. Mantellini - Nel rapporto del centro studi c'è la definitiva conferma di uno spaventoso ritardo nell'ammodernamento di questo Paese. Un problema personale, culturale, collettivo

Il dato fondamentale del IX rapporto sulla Comunicazione presentato dal Censis qualche giorno fa sembrerebbe essere quello del numero di italiani che accede a Internet che, secondo la ricerca, ha superato il muro del 50 per cento coinvolgendo oltre un cittadino su due (53,1 per cento), con un aumento, rispetto alla medesima rilevazione del 2009, di oltre 6 punti percentuali. Secondo il Censis nel 2011 oltre un italiano su due accede alla Rete almeno una volta alla settimana.

Questi numeri sono sufficienti per generare titoli entusiastici o per indicare una riscossa digitale del paese? Purtroppo no, mi pare invece raccontino l’esatto contrario. Negli ultimi due anni il numero di italiani discesi in Rete è aumentato di un modesto 3 per cento annuo, mentre il consumo mediatico (sul quale si incentra buona parte della ricerca) a fronte di un brusco calo del consumo di quotidiani a pagamento (-7 per cento), non ha mostrato segni di grandi riscosse digitali: per fare un esempio il consumo di testate giornalistiche on line è nel frattempo aumentato solo dello 0,5.

Per raccontare la misura del ritardo digitale di questo paese vi basti sapere che nel resto d’Europa il traguardo del 50 per cento dei cittadini in Rete è stato raggiunto fra il 2006 e il 2007, quasi 5 anni fa. Ci stiamo oltretutto riferendo al dato medio dei 27 paesi monitorati da Eurostat, che comprendono quindi anche Cipro, Romania, Estonia e Grecia, oltre che i maggiori paesi europei con i quali siamo soliti confrontarci. I maggiori paesi europei viaggiano su cifre molto differenti rispetto a quella media, sempre abbondantemente oltre il 70 per cento (ultimi dati riferiti al 2009). Se questo non bastasse andrebbe specificato che le statistiche di Eurostat si riferiscono al numero di collegamenti casalinghi alla Rete, mentre quelli del Censis non specificano se il calcolo comprenda anche le connessioni dal posto di lavoro.

Insomma, da qualsiasi lato li si osservi, si tratta di numeri pessimi, che esprimono molto chiaramente la misura di un grande ritardo. Di più, si tratta di una situazione sostanzialmente stabile, senza grandi segnali di possibili futuri ribaltamenti.

Quanto alla parte dello studio che riguarda la comunicazione, la ricerca del Censis sembra confermare da un lato lo scarso amore di questo paese per l’informazione, dall’altro ci offre una discreta confusione metodologica nella quale è molto difficile districarsi, specie nella parte in cui tenta di esplorare i mille luoghi comuni che riguardano la percezione della rete Internet da parte degli italiani.

La sostanziale tenuta della TV tradizionale quale presidio informativo principale degli italiani è in ogni caso un ottimo dato sul futuro cupo del paese: oltre l’80 per cento degli italiani si informa sui TG, il 56 ascolta i giornali radio, il 47 per cento compra un quotidiano. Perfino il televideo con un brillante 45 per cento se la cava meglio della informazione su Internet visto che i siti web informativi sono letti dal 29 per cento dei cittadini, mentre i quotidiano online raccolgono solo il 21 per cento dei consensi.

Dentro questa grande Caporetto digitale il 41 per cento cerca le notizie su Google, il 26,8 su Facebook, il 14 si informa sui blog, il 7,3 per cento usa le app sugli smartphone e il 2 per cento Twitter.

L’altro focus importante del lavoro del Censis è quello sulla dieta mediatica. La ricerca ipotizza una segmentazione dell’accesso informativo in tre grandi gruppi: quello di chi si informa unicamente attraverso radio e TV (28,7 per cento), chi aggiunge anche i mezzi a stampa (il 23 per cento) e chi invece racconta una dieta mediatica ampia che comprende tutti questi strumenti più Internet (il 48 per cento).

Qui la ricerca si inventa un inesistente “cultural divide” che segmenterebbe chi legge i giornali da chi non li legge, un gap in aumento, legato alla forte crisi dei quotidiani di questi anni, mentre con l’espressione “digital divide” prova a dividere quanti non utilizzano la Rete da quelli che si informano anche su Internet.

La scelta di questi termini è sbagliata e genera una discreta confusione: il divario digitale è per definizione un ostacolo fisico all’accesso, non è legato alle scelte dei cittadini ma una condizione infrastrutturale. È una condizione geografica prima che culturale e benché il tema del cosiddetto digital divide culturale esista, e sia anzi oggi uno dei temi centrali di cui si dovrebbe discutere in questo paese, visto che a una copertura in banda larga abbastanza diffusa non corrispondono scelte di accesso proporzionali, sarebbe buona cosa non confondere i termini affidando loro significati nuovi.

In questa ottica il divario culturale (abroghiamo l’inutile inglesismo “cultural divide”) non può essere quello di chi sceglie di non leggere i quotidiani ma quello, ben più inconcepibile, di quanti, pur avendo a disposizione strumenti di composizione della propria dieta mediatica molto ampi e potenti, scelgono di non utilizzarli dando di tanto in tanto una occhiata distratta allo schermo del televideo.

Massimo Mantellini
Manteblog

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Pubblicato il
18 lug 2011
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