Contrappunti/ Il fascino discreto dell'anonimato

Contrappunti/ Il fascino discreto dell'anonimato

di M. Mantellini - L'account Facebook come chiave per la propria identità e identificazione in Rete. Ma basta questo a risolvere il problema? E poi, quale problema?
di M. Mantellini - L'account Facebook come chiave per la propria identità e identificazione in Rete. Ma basta questo a risolvere il problema? E poi, quale problema?

A pensarci bene la discussione, che ogni tanto ritorna, sui commenti dei lettori nelle pagine web, attiene ad un tema importante che meriterebbe maggior attenzione: quello della partecipazione degli individui ad uno spazio pubblico di Rete nel quale si formano e mutano opinioni e punti di vista. In pratica una buona fetta della rete Internet è fatta di questo.

Qualche settimana fa Farhad Manjoo si è dedicato all’argomento su Slate (il suo articolo è pubblicato in italiano anche nel numero in edicola di Internazionale ), ed ha applicato a questo tema un punto di vista un po’ cupo e strettamente giornalistico che si esaurisce nella constatazione secondo la quale i commenti anonimi sui siti web riducono il valore informativo ed aumentano la confusione, mentre i recenti passaggi a sistemi di autenticazione obbligatoria, in genere basati sull’utilizzo delle proprie credenziali Facebook, hanno portato a risultati incoraggianti.

A monte di questo ragionamento troneggiano due elementi dati velocemente per scontati da Manjoo: il primo che l’anonimato sia un valore della prima Internet ampiamente decaduto (salvo eccezioni da riservare a particolari contesti come ad esempio quelli sotto i riflettori in questi mesi turbolenti), il secondo che il rispetto ossessivo della privacy abbia come effetto diretto “la teoria del grande imbecille” secondo la quale “se garantisci a qualcuno l’anonimato e gli dai un pubblico, lo trasformi in un perfetto imbecille”.

In base a queste valutazioni il fatto che gli utenti di Internet, per poter commentare un articolo su un sito web, siano invitati a fornire le proprie generalità loggandosi su Facebook, risolverebbe molti problemi: lasciare un commento diventa un atto pubblico, si cede uno spicchio della propria privacy in cambio della partecipazione ad una conversazione aperta a tutti.

In realtà la partecipazione dei cittadini alle conversazioni di Rete è infinitamente più varia e complessa e dipende in prima analisi dal luogo di discussione: un sito web editoriale è diverso da un blog che è diverso da un social network. Addirittura dentro reti sociali differenti esistono e sono del tutto naturali modalità di interazione diverse. Facebook è differente da Twitter che è diverso da Friendfeed e non esiste un unico protocollo comunicativo buono per tutti.

Lo scopo dei commenti dentro il sito web di un grande quotidiano dovrebbe per esempio essere primariamente quello di innalzare il valore informativo dell’articolo: da quelle parti il tema non dovrebbe essere tanto quello di richiedere credenziali quanto quello di pretendere valore contenutistico. È evidente che impedire i commenti anonimi taglia fuori una quota più o meno rilevante di contributi fastidiosi, ma non ha alcun effetto corroborante sulla qualità dei commenti regolarmente autenticati da Mario Rossi o Paolo Bianchi. Il tema imprescindibile per un grande giornale online invece sarebbe quello di tenere la barra dritta verso l’interesse dei lettori, compresi i lettori dei commenti: pubblicare articoli interessanti e aggiungere (moderandoli preventivamente) solo commenti che ne accrescano ulteriormente il valore. Che questi contributi siano anonimi o vidimati dal notaio è largamente irrilevante.

In altri ambiti il rumore di fondo può far parte dell’ambiente (in molti blog si stratificano nel tempo vere e proprie comunità di commentatori seriali che iniziano a far parte dello scenario assieme al gestore del sito) ed anche in questi casi l’anonimato non è necessariamente negativo: lo è spesso, inutile negarlo, ma non sempre. Chiunque abbia un blog conosce bene il fastidio della critica anonima e codarda ma sa anche che sovente dietro un commento anonimo può essere ugualmente presente valore ed acume.

In altri contesti ancora differenti l’anonimato e l’uso di un nickname sono un valore di per sé e diventano una cifra comunicativa caratteristica ed accettata da tutti. Per esempio sui forum o su alcuni social network largamente votati alla rapida condivisione dei punti di vista.

C’è poi da dire – tornando all’articolo di Slate – che spesso in casi del genere la cura sembra essere peggiore del male e immaginare sistemi di autenticazione editoriale attraverso il plugin di Facebook non è, come scrive Manjoo, una piccola deroga alla propria privacy, perché attraverso una simile pratica si associa la propria presenza di Rete a contesti molto differenti, costruendo una sorta di carta di identità pubblica che ha almeno due grandi limiti: è continuamente esposta a tutti i nostri contatti (ai quali non necessariamente vorremmo far sapere che stiamo commentando nel tal sito) e soprattutto non è nostra. Una ennesima montagna di informazioni che affidiamo alla mano benedicente del nostro social network preferito in cambio di niente. In poche parole una pessima idea.

Gli sciocchi ci ripetono da anni che chi non ha nulla da nascondere non ha ragioni per celarsi dietro il muro dell’anonimato. In realtà in moltissimi contesti di Rete (economici e non solo) una autenticazione univoca e certificata (non certo quella di Facebook o di Google) sarebbe ormai da tempo auspicabile. Ma il guardiano di un simile portone di accesso non può essere il governo, ne tanto meno il commerciante all’angolo ed in ogni caso quello che è certo è che gli ambiti di espressione delle opinioni saranno gli ultimi fra quelli eventualmente interessati da una simile processo di disvelamento.

Massimo Mantellini
Manteblog

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Pubblicato il
11 apr 2011
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