Ma chi sarebbe – esattamente – questo “popolo della rete” di cui leggiamo e che sentiamo citare nei telegiornali sempre più spesso? In questi giorni per esempio “il popolo della rete” pare abbia preso posizione nei confronti della attrice Manuela Arcuri, così il profilo pubblico dell’attrice su Facebook è ora costellato di elogi e insulti legati alle ultime intercettazioni telefoniche pubblicate dai quotidiani. Il popolo della Rete prima plaude fragorosamente, poi manifesta tutta la sua delusione nei confronti della soubrette. Compatto, univoco, in marcia come un sol uomo, cambia però idea molto rapidamente.
Nell’ultimo decennio, questa frase ha lentamente mutato il suo significato, pur non riuscendo mai a cancellare la propria originale insensatezza. Dieci anni fa “il popolo della rete” era prima di tutto una perifrasi di diversità: quando incontravamo simili espressioni sui giornali il senso trasmesso ai lettori era esotico e lontano. Esisteva il mondo reale, il consesso dei frequentatori della società civile, delle piazze e dei mercati, e poi, a qualche anno luce di distanza, si dava conto dell’esistenza di una comunità di strane persone accomunate da una passione per la rete Internet. Il popolo della Rete era altrove rispetto ai fatti del mondo, era un frammento vago e scarsamente rappresentativo, la Tasmania nella cartografia del pianeta, l’ingranaggio minuscolo e apparentemente ininfluente di un orologio svizzero.
Poi la frase “Il popolo della rete”, mentre Internet faticosamente entrava dentro la nostra quotidianità, è diventata invece il vessillo di una certa maniera spiccia di fare giornalismo. L’uomo della strada, l’opinione pubblica, la casalinga di Voghera, sono stati rapidamente scalzati dall’olimpo dei luoghi comuni riassuntivi dei punti di vista della comunità dal più moderno “popolo della rete”. I vantaggi di sintesi giornalistica sono i medesimi ma il prezzo per ottenerli si riduce ulteriormente: al popolo della Rete così come all’uomo della strada è possibile mettere in bocca qualsiasi punto di vista, mentre il serbatoio dal quale pescare simili opinioni si fa improvvisamente vastissimo e comodo. Perché su Internet qualsiasi opinione è compresa, ogni originale punto di vista che ci sia utile è incollabile ad un click di distanza.
Perfino le seccature della corretta citazione diventano risibili: non c’è Mario Rossi che tenga, il popolo della Rete è per definizione comprensivo di tutto e tutti e come accade negli automatismi verbali di certi politici che cominciano ogni frase con “I cittadini ci chiedono…” ai quali nessuno domanda mai: “Ma esattamente – mi scusi – quali cittadini ve lo chiedono”, allo stesso modo sarebbe altrettanto utile la domanda: “Ma esattamente lei, signor giornalista, a quale popolo della rete si riferisce?”.
Per queste ragione ogni punto di vista così attribuito pesa oggi esattamente zero, vale il nulla assoluto, tanto che la frase “il popolo della rete” potrebbe forse essere citata nelle scuole di giornalismo come una espressione da non utilizzare mai, tanta è la sua vaghezza, paraculaggine ed inconsistenza.
Nessuno si senta offeso: “il popolo della rete” inneggia ai mafiosi su Facebook, critica la casta dei politici pubblicando i menù della Camera dei Deputati, vende memorabilia naziste su Yahoo!. Si indigna in massa ogni giorno per una sacrosanta differente ragione, raccoglie firme per fondamentali petizioni. Ma non solo: il popolo della Rete decreta il successo di nuovi cantanti che nessuno ha mai ascoltato, consuma voracemente video strani su Youtube e conia neologismi astrusi che dai social network sciamano velocemente verso l’accademia della Crusca. Il popolo della Rete insomma non si ferma mai, ha opinioni varie e molto forti, talmente varie e forti da non averne nessuna. Il popolo della Rete, insomma, non esiste. Siamo solo noi, come direbbe Vasco Rossi. E più la Rete diventa quotidiana ed usuale e più questo “noi” diventa ampio. Siamo solo noi, tutti noi però, non solo quelli che vanno a letto la mattina presto.
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