Il processo nel quale si sta decidendo del cartello del lavoro della Silicon Valley potrebbe essere chiuso: nonostante l’ insoddisfazione serpeggi fra alcuni dei dipendenti di Apple, Google, Intel e Adobe, la parti si sono accordate per mettere una fine al contenzioso con 324,5 milioni di dollari da dividere fra i lavoratori danneggiati. A mancare è solo l’approvazione del giudice Lucy Koh: il dibattimento, dunque, continua, e continuano ad emergere dettagli sulle pratiche di assunzione dei colossi della tecnologia.
La controparte, nel caso del nuovi documenti pubblicati, è Facebook: a dimostrare la sua estraneità al cartello del lavoro della Silicon Valley, uno scambio di email fra i dirigenti di Google. Il manager Vijay Gill inoltra a due colleghi una email ricevuta da un dipendente non altrimenti identificato, nella quale si spiega come Google “migliori significativamente le offerte contrattuali a coloro che abbiano ricevuto proposte anche da Facebook” e come si preveda che “ai Googler che dichiarino di aver ricevuto una proposta di lavoro da Facebook venga fatta una controfferta nel giro di un’ora”.
L’allora CEO Schmidt era naturalmente a conoscenza della pratica, peraltro appena introdotta e subito trapelata fra i dipendenti. Ma quella delle controfferte non era l’unica strategia per avvincere i lavoratori e il loro talento: i documenti fanno sospettare che il personale di Google abbia sorvegliato da vicino gli addetti al reclutamento di Facebook, e abbia avviato un corteggiamento serrato dei dipendenti del social network, anche se non ci sono prove del fatto che “Larry e Sergey” (rispettivamente Page e Brin) abbiano agito in prima persona, come invece suggerivano il CEO di Intel Paul Otellini e il venture capitalist John Doerr.
I documenti che testimoniano le strategie adottate da Google per consolidare le schiere del proprio personale sono da collocare in un periodo che va dal 2007 al 2009: un momento, ricorda il cofondatore di Google Sergey Brin, in cui la bolla del Web 2.0 prometteva facili e rapidi guadagni a tutti coloro che si lasciassero sedurre dalle aziende che operavano nel settore “social”.
Gaia Bottà