Il behavioral advertising si dà una regolata

Il behavioral advertising si dà una regolata

Le organizzazioni dell'advertising si accordano per l'adozione di linee guida comuni in merito al trattamento dei dati dell'utenza a fini pubblicitari. Si invoca il rispetto della privacy ma non tutti sono soddisfatti
Le organizzazioni dell'advertising si accordano per l'adozione di linee guida comuni in merito al trattamento dei dati dell'utenza a fini pubblicitari. Si invoca il rispetto della privacy ma non tutti sono soddisfatti

L’attuale regime di applicazione delle pratiche di behavioral advertising negli States starebbe per lasciare il posto a principi di autoregolamentazione validi per tutta l’industria , che si è accordata su una maggiore trasparenza e sicurezza della gestione delle informazioni.

I sette principi formulati dall’industria sono stati accolti dalle seguenti organizzazioni: American Association of Advertising Agencies (4Às), Association of National Advertisers (ANA), Direct Marketing Association (DMA) e Interactive Advertising Bureau (IAB), con l’aggiunta del Council of Better Business Bureaus (BBB) che lavora per rafforzare (o creare) il rapporto di fiducia tra consumatori e aziende. LE associazioni coinvolte includono qualcosa come 5mila diverse aziende e giganti del calibro di Google, Microsoft, Yahoo!, Disney e Verizon.

Approvando il nuovo “patto” di autoregolamentazione, le suddette organizzazioni si impegnano tra l’altro a “educare” gli utenti a e informarli adeguatamente sul tipo di dati in via di tracciamento, raccolta e profilazione, a fornire agli utenti un maggior controllo sulle informazioni registrate , a “mantenere appropriati sistemi di protezione fisica, elettronica e amministrativa” per i dati raccolti e conservarli quel tanto che basta per “soddisfare necessità di business legittime o secondo quanto previsto dalle norme legali” e non oltre.

Le organizzazioni impegnate nell’advertising esaltano questo massiccio sforzo di autoregolamentazione esteso alla sostanziale totalità dell’industria come un modo di lavorare assieme per “promuovere l’interesse pubblico”, secondo le parole del presidente e CEO di IAB Randall Rothenberg. “Sebbene i consumatori abbiano presentato ben pochi reclami inerenti la privacy su Internet – continua Rothenberg – le ricerche mostrano che alla loro riservatezza ci tengono”. Ragion per cui “noi stiamo agendo prima e aggressivamente in risposta a queste preoccupazioni – continua il dirigente – per rafforzare la fiducia dei consumatori in questo medium vitale che contribuisce in maniera così significativa all’economia statunitense”.

I nuovi principi di autoregolamentazione sul behavioral advertising sono stati accolti positivamente anche dalla Federal Trade Commission , che da tempo ha posato il proprio sguardo indagatore su questo genere di pratiche telematiche. “I consumatori meritano trasparenza in materia di raccolta e uso dei loro dati per motivi di advertising comportamentale” ha dichiarato il commissario della FTC Pamela Jones Harbour, dicendosi altresì “gratificata dal fatto che un gruppo di influenti associazioni – rappresentanti una componente significativa della community di rete – ha risposto alle molte preoccupazioni sulla privacy rilevate da me e dai miei colleghi”.

La FTC accoglie questo “importante primo passo” di regolamentazione e non poteva essere altrimenti, visto che lo stesso organo di controllo federale si era già mosso per regolamentare l’advertising profilato con un codice di condotta pubblicato a febbraio. In tal senso le organizzazioni dell’advertising non avevano altra scelta che dimostrarsi seriamente intenzionate a rispondere in maniera concreta alle preoccupazioni sollevate presso la FTC, per lo meno se intendessero evitare una stretta ancora più soffocante al lucroso business della raccolta dei dati di navigazione a scopo pubblicitario.

Chi però non è soddisfatto è proprio quella parte di difensori della privacy più attiva nel denunciare in tutte le sedi (e quindi alla FTC stessa) i pericoli connessi al behavioral advertising. C’è chi come Alissa Cooper del Center for Democracy and Technology è incoraggiata dalla mossa delle organizzazioni della pubblicità ma sposa un approccio da “credo solo quando vedo”, riservandosi di giudicare l’effettiva implementazione dell’autoregolamentazione nella realtà di navigazione quotidiana.

Jeff Chester, direttore esecutivo di Center for Digital Democracy , ci va giù ancora più pesante definendo i nuovi principi come qualcosa che è “troppo poco” ed nato “sin troppo tardi”. “I principi sono inadeguati”, rimarca Chester, perché dietro l’apparente autoregolamentazione il business dell’advertising condona se stesso e il suo approccio da “volpe che sorveglia il pollaio dei dati digitali”. Per Chester l’unica vera alternativa al Far West dell’advertising profilato è “una effettiva regolamentazione governativa” in difesa dei consumatori-polli.

Alfonso Maruccia

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Pubblicato il
6 lug 2009
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