Oblio d'ufficio sul web

Oblio d'ufficio sul web

C'è differenza tra un nome che finisce sui giornali o alla TV, e uno che va su web. Almeno secondo un giudice neozelandese. Che con una sentenza farà discutere
C'è differenza tra un nome che finisce sui giornali o alla TV, e uno che va su web. Almeno secondo un giudice neozelandese. Che con una sentenza farà discutere

Ci sono argomenti di cui tutti devono essere informati, altri che è bene non finiscano in quel calderone sempiterno che è la rete. È il caso dei nomi e delle foto di due persone accusate di omicidio in un tribunale della Nuova Zelanda: il giudice David Harvey ha stabilito che le rispettive generalità possano essere divulgate a mezzo stampa e TV, ma non su Internet. Troppo alto il rischio che, in questo caso, l’imparzialità di una futura giuria o la reputazione dei due interessati in caso di assoluzione possa essere compromessa da una semplice ricerca su Google.

Il giudice Harvey, che è anche un professore universitario che si occupa appunto di diritto in rete, si è detto “preoccupato che qualcuno cerchi in rete il nome di qualcun altro e possa trarre informazioni in seguito”, nonché attento all'”effetto virale della pubblicazione digitale”. Per questo ha deciso di limitare ai giornali cartacei e al notiziario della sera la diffusione delle immagini e dei nomi di due individui accusati dell’omicidio di un ragazzo 14enne, di tentata rapina e possesso di armi.

Secondo gli esperti, si tratta del primo caso del genere mai verificatosi in un aula di tribunale. È prevista da molti ordinamenti la possibilità per il giudice di indicare alcune limitazioni o alcuni obblighi alla diffusione di alcune informazioni – come accade ad esempio quando viene imposta la pubblicazione di una smentita per porre fine ad un caso di diffamazione, o la comunicazione di una sentenza al pubblico potenzialmente interessato ad un rimborso – ma non vi è traccia per il momento di sentenze volte ad escludere Internet proprio a causa della sua universalità e popolarità.

In un certo senso, la decisione del giudice può essere anche letta sotto un altro punto di vista: non solo le informazioni in rete hanno una durata maggiore , grazie alla capacita del web di tenere un archivio pressoché infinito di tutto ciò che transita per le sue pagine, ma sono anche in grado di raggiungere un pubblico più vasto ed eterogeneo di quanto non facciano TV e giornali.

Sono probabilmente proprio l’universalità e la diffusione del mezzo ad aver convinto in passato i tutori dell’ordine e della legge a scegliere Internet per l’opposto di quanto oggi fa il giudice Harvey: diffondere a tutto spiano notizie su chi si macchia di crimini gravi o particolarmente efferati , così da trasformare una singola pagina in una sorta di gogna mediatica su cui esporre al pubblico ludibrio i colpevoli di turno.

È il caso di quanto hanno realizzato dapprima i singoli stati USA per i reati locali, con la costruzione di database concernenti i crimini commessi all’interno dei rispettivi confini. Dati che poi lo stesso organismo federale ha provveduto a riunificare sotto un unico ombrello che consentisse a tutti di accedere più facilmente ai singoli archivi, tra le polemiche di chi ritiene che la diffusione di foto e generalità dei criminali costituisca comunque una violazione del principio della privacy che va ben oltre la condanna impartita ai colpevoli.

Progetti di questo tipo riguardano soprattutto i reati a sfondo sessuale , in particolar modo quelli legati ai predatori di minori: anche in Irlanda sono da poco iniziate le sperimentazioni di un registro liberamente consultabile dai genitori per tenere d’occhio il personale a cui affidano i propri figli. Negli USA, invece, il National Sex Offender Public Registry è ormai una realtà da tempo, sebbene non manchino i casi in cui l’utilizzo di queste informazioni è sfuggito di mano agli stessi utilizzatori, seppur in perfetta buona fede.

Una scelta, quella statunitense, che dunque si pone in netto contrasto con la decisione del tribunale neozelandese. Nel caso nordamericano sopravvivono ancora diverse limitazioni all’impiego di certe informazioni, anche se non scarseggiano le proposte di inasprire il quadro legislativo per tentare di tenere maggiormente sotto controllo gli spostamenti in rete di chi in passato ha scontato una condanna per un certo tipo di reati.

Non si è ancora giunti alla marchiatura tecnologica degli ex-detenuti , come proposto nel Regno Unito non più di un paio di anni addietro, ma poco ci manca. Di diverso avviso il giudice Harvey, che ha deciso invece di privilegiare il cosiddetto diritto all’oblio volto a garantire l’autentica riservatezza degli indagati in un presente tecnologico. Una decisione che, in ogni caso, non mancherà di suscitare numerose riflessioni e che costituirà un precedente legale importante.

Luca Annunziata

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Pubblicato il
26 ago 2008
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