C’è una piccola parola che sta scatenando una guerra legale tra due giganti tech. Quella parola è “cameo”. C’è Cameo che esiste dal 2017 e che permette ai fan di pagare per avere video personalizzati dalle celebrità. E poi c’è OpenAI, che ha chiamato “cameo” una funzione di Sora, il suo generatore di video AI. Il risultato? Una causa per violazione di marchio depositata martedì in un tribunale federale della California.
Battaglia legale Cameo vs OpenAI: chi può usare la parola “cameo”?
Secondo Cameo, OpenAI sta intenzionalmente confondendo i consumatori e rischia di associare il marchio Cameo a prodotti scadenti realizzati con l’intelligenza artificiale e deepfake con personaggi famosi. Non sono parole gentili, e fanno pensare che questa battaglia non si risolverà con una pacifica pacca sulle spalle.
L’app Cameo è diventata popolare grazie a un’idea brillante, mettere in contatto fan e celebrità attraverso brevi video personalizzati o videochiamate dal vivo. È un business che funziona perché crea interazioni autentiche tra celebrità e fan, anche se mediate da uno schermo.
OpenAI, dal canto suo, ha lanciato Sora il 30 settembre 2025, un’app per generare video social basati sull’AI. E tra le sue funzioni c’è proprio “cameo“, che permette agli utenti di creare un avatar deepfake di se stessi che altre persone possono utilizzare nei video. Alcuni personaggi famosi hanno volontariamente caricato la propria immagine nella funzione, ma le discutibili misure di sicurezza dell’app hanno anche portato alla creazione di deepfake non consensuali. Un dettaglio non da poco che alimenta le preoccupazioni di Cameo.
Steven Galanis, CEO di Cameo, non ha usato mezzi termini nella sua dichiarazione a The Verge: Abbiamo cercato di risolvere la questione in modo amichevole con OpenAI, ma hanno rifiutato di smettere di usare il nome Cameo per la loro nuova funzione Sora. Per proteggere i fan, i talenti e l’integrità del nostro mercato, abbiamo ritenuto che purtroppo non avessimo altra scelta che intentare questa causa
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L’azienda sostiene che OpenAI abbia intenzionalmente scelto il nome Cameo per la sua funzione Sora proprio per sfruttare la reputazione che Cameo ha costruito negli anni. Non solo: dall’arrivo dell’app Sora, sono spuntati vari siti web di terze parti che si concentrano sulla funzione di generazione video Cameo, erodendo ulteriormente il marchio originale.
OpenAI: “Nessuno possiede una parola comune”
La risposta di OpenAI è arrivata tramite Oscar Haines, portavoce dell’azienda, che ha dichiarato a The Verge: Stiamo esaminando la denuncia, ma non siamo d’accordo con queste affermazioni e difenderemo la nostra posizione secondo cui nessuno può rivendicare la proprietà esclusiva della parola “cameo”.
Ed è qui che la faccenda si fa interessante dal punto di vista legale. La parola “cameo” esiste da secoli nella lingua inglese, deriva dall’italiano “cammeo” e indica una breve apparizione, specialmente nel cinema. È un termine comune, usato quotidianamente, e OpenAI sostiene che nessuna azienda può recintarlo come proprietà esclusiva.
Ma Cameo non chiede di possedere la parola in ogni contesto. Chiede che OpenAI non la usi specificamente per prodotti tecnologici che competono direttamente o creano confusione con il suo servizio. È una distinzione importante. Apple non può impedire a chiunque di vendere mele, ma può impedire a un’altra azienda tecnologica di chiamarsi Apple e vendere smartphone.
Deepfake, reputazione e associazioni indesiderate
Uno degli argomenti centrali della causa è che l’uso del nome “cameo” da parte di OpenAI associa il marchio Cameo a prodotti AI di qualità inferiore e, peggio ancora, a deepfake potenzialmente dannosi. Le misure di sicurezza traballanti di Sora hanno già portato alla creazione di deepfake non consensuali, e Cameo teme che questa associazione danneggi la sua reputazione costruita su interazioni autentiche e consensuali tra celebrità e fan.
Non è paranoia. Nell’era dei deepfake, dove la manipolazione video diventa sempre più sofisticata e accessibile, distinguere tra contenuti autentici e falsi è cruciale. Se i consumatori iniziano ad associare “Cameo” a video falsi generati dall’AI invece che a messaggi autentici delle celebrità, il modello di business dell’azienda crolla.
Cosa chiede Cameo
La richiesta è doppia: un risarcimento danni di importo non specificato e un’ordinanza del tribunale che impedisca a OpenAI di utilizzare i termini “cameo” o “cameos” nei nomi dei suoi prodotti. In sostanza, Cameo vuole che OpenAI cambi nome alla funzione e paghi per il danno già fatto.
Se vince Cameo, OpenAI dovrà cambiare nome alla funzione e pagare i danni. Se invece OpenAI dimostra che “cameo” è una parola troppo generica per essere protetta, rischia di creare un precedente che metterebbe nei guai tante aziende con nomi comuni. Il giudice dovrà decidere se OpenAI ha solo descritto una funzione o se ha cercato di approfittare della fama di Cameo per rubare fette di mercato.